La morte di un giovane è un evento che squarcia la notte, come un lampo che illumina per un istante l’oscura vastità dell’esistenza. È un vuoto che non si può colmare, una ferita che non si rimargina, un’eco che si propaga attraverso il tempo, scavando nell’anima di chi resta. È il lutto che si allarga come cerchi concentrici nell’acqua, travolgendo non solo chi amava e conosceva, ma anche chi, di fronte alla scomparsa, si scopre improvvisamente più solo, più esposto al mistero insondabile della vita e della morte.

Oggi Francesco Occhiuto, prima Lorenzo Pataro e Serafino Congi. Tre nomi, tre destini spezzati, tre voci diverse interrotte nel mezzo del canto. Non è la cronaca che conta, non sono i dettagli che affollano morbosamente gli articoli di giornale: è il silenzio che queste morti impongono, il vuoto che si apre nelle stanze delle loro case, nei pensieri di chi li ha conosciuti, nelle città che li hanno visti crescere. È il grido muto di chi resta, un’eco che si propaga nelle piazze, nelle strade, nelle mani intrecciate in una preghiera senza parole.

C’è una sacralità nel dolore. Non quella sacralità che si veste di cerimonia e di rituale, ma quella che appartiene alla sostanza più profonda dell’umano. Il pianto di una madre, lo smarrimento di un padre, la voce spezzata di un amico: in questi gesti, in queste assenze, si riflette il mistero della nostra fragilità e della nostra insostituibile unicità. Ogni morte è un frammento che si stacca dal grande affresco della vita, lasciando uno spazio che nessuna parola, nessun gesto, nessuna preghiera potrà mai colmare del tutto.

La Calabria, questa terra che sa essere feroce e tenera, antica e moderna, crudele e accogliente, è testimone di queste perdite. È testimone del giovane che cade nel buio della notte, dello scrittore la cui parola si fa muta all’improvviso, del ragazzo che esala l’ultimo respiro sospeso tra la vita e la speranza di un soccorso che non arriverà mai.
E noi, come discepoli confusi, restiamo a interrogarci sul senso di tutto questo, incapaci di trovare una risposta. La vita è un soffio, un passaggio effimero nel tempo, eppure dentro di noi brucia l’urgenza di darle significato, di riconoscerne il valore anche quando ci sfugge, anche quando viene spezzata troppo presto.
Forse non serve cercare una risposta. Forse il solo gesto possibile è il raccoglimento, la memoria, il rispetto. Forse dovremmo fermarci, smettere di correre, di riempire il vuoto con parole vane, e ascoltare il silenzio. Perché in quel silenzio abita qualcosa di più grande di noi, qualcosa che ci sfugge e che pure ci chiama, incessantemente. È nella notte che il dolore si fa preghiera, anche per chi non crede. È nel mattino che la perdita diventa respiro, soffio di vita che torna nel vento.

E dunque restiamo qui, in attesa che l’eco di quei nomi si dissolva. Ma che almeno il loro passaggio ci insegni a sentire, a custodire la fragilità dell’altro, a vegliare su chi amiamo come se ogni giorno fosse l’ultimo. Perché un giorno lo sarà.
E quel giorno, quando il nostro nome si perderà nel vento, vorremo che qualcuno, anche solo per un istante, ci ricordi con la stessa tenerezza con cui ora ricordiamo Francesco, Lorenzo e Serafino.