di Alessandra Adamo (avvocata presso il Foro di Cosenza)
    Ugo Adamo (costituzionalista Unical)
    Andrea Lollo (costituzionalista Unicz)

C’era da aspettarselo? Forse sì, forse no. Il dubbio nasce sempre quando la Corte costituzionale impiega tecniche decisorie ancora in fase di rodaggio e non finemente normate. La questione è nota al lettore, ma si può richiamare, seppure in breve.

Il 23 marzo dello scorso anno, la Corte ha depositato un’ordinanza (la n. 97/2021) con la quale – pur non dichiarando l’incostituzionalità della legge sull’ergastolo ostativo – ha comunque rilevato che la «disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». È in contrasto, cioè, con la finalità della pena che deve sempre tendere alla rieducazione del reo.

Non siamo, dunque, dinanzi a una dichiarazione di illegittimità, ma ad una di «incostituzionalità prospettata» – così come la definì, nella sua prima applicazione, il Presidente emerito Lattanzi – ovverosia di incostituzionalità “accertata ma non dichiarata”.

La Corte costituzionale, anche rilevando la manifesta incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ha comunque riconosciuto al Parlamento un anno di tempo per conformare la legge alla Costituzione, con la motivazione che un suo intervento demolitorio avrebbe rischiato di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Inoltre, accompagnava il monito rivolto al Legislatore con delle “linee guida” per indirizzarlo nella scelta da compiere.

Almeno per chi scrive, due erano le certezze, legate l'una all'altra inscindibilmente: la Corte costituzionale non avrebbe dovuto avere dubbi nel procedere subito con una sentenza di incostituzionalità, non solo perché la legge è palesemente incostituzionale, ma perché - e questa è la seconda certezze - era più che prevedibile che il Parlamento non avrebbe rispettato i termini fissati dalla Corte. 

E infatti, così è stato. Il Parlamento ha lavorato ma non fino al punto di abrogare e riscrivere la disciplina sull’ergastolo ostativo. È riuscito solo a licenziare un testo in Camera dei deputati, tanto che il disegno di legge è ancora in discussione in Senato, attualmente in Commissione Giustizia.

Ritorniamo alla (innovativa e criticabile) tecnica decisoria della Corte, ricordando che è stata già utilizzata altre due volte, nel 2018 (ord. n. 207) nel c.d. ‘caso Cappato’ e nel 2020 (ord. n. 132) nel c.d. ‘carcere ai giornalisti’. In entrambi i casi il Parlamento non è intervenuto, con la conseguenza che la Corte, riappropriandosi della causa, ha dichiarato incostituzionale entrambe le leggi, ma con un ritardo di un anno rispetto a quando avrebbe potuto farlo (sentt. nn. 242/2019 e 150/2021).

Se nel “caso Cappato” l’attesa di undici mesi ha mantenuto in bilico la reclusione dell’imputato per il reato di aiuto al suicidio (dichiarato in parte, poi, incostituzionale), nel caso sottoposto alla nostra attenzione, al contrario, molti detenuti già stanno attendendo da oltre un anno in stato di detenzione perché possa essere loro riconosciuto ‘pienamente’ il diritto ad accedere a misure di libertà condizionale, così come vorrebbe la nostra civiltà giuridica, molte volte richiamata ma senza conoscerne la reale portata. È quella civiltà che vuole – in Italia dal 1948 – che la pena sia finalizzata alla rieducazione del reo, alla sua risocializzazione nella comunità di cui fa parte, tanto che sull’ordinamento costituzionale ricade il dovere di farsi carico (anche) dei detenuti non collaborativi.

L’automatismo previsto dalla legislazione in vigore è irragionevolmente sbilanciato a favore delle esigenze di politica criminale a scapito della funzione rieducativa della pena, pregiudicando in tal modo la dignità di ciascun detenuto.

La mancanza di collaborazione con la giustizia, che rende l’ergastolo ostativo, non può sempre essere collegata a una scelta libera e volontaria (essa infatti può risiedere nella paura dell’ergastolano di mettere in pericolo la propria vita o quella della propria famiglia), così come non è detto che l’eventuale collaborazione rifletta un vero cambiamento o un’effettiva dissociazione dall’ambiente criminale, tanto che la scelta di collaborare può essere il risultato di una valutazione d’interesse fatta per beneficiare dei vantaggi che la legge prevede (scopo meramente opportunistico), senza essere un segno di una avvenuta risocializzazione.

Siamo dinanzi a una vera e propria "presunzione legale", quella per cui si assume la persistenza del legame criminale e dell’assenza di emenda. E perché mai escludere legalmente che il condannato decida di non collaborare perché ciò si scontra con la sua intima convinzione di essere innocente?

Pur rilevati questi presupposti fattuali, l’assenza di collaborazione con la giustizia comporta per l’ordinamento una presunzione legale assoluta, indiscutibile, ma diremmo persino assiomatica, di pericolosità sociale, tale da privare (un’altra volta in modo assoluto) il detenuto di qualsiasi prospettiva di liberazione in diretta violazione con la funzione di risocializzazione della pena. Solo l’inveramento di questo principio costituzionale consente all’individuo di rivedere criticamente il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità, in modo dignitoso.

La Corte con il suo comunicato, pubblicato nella giornata di ieri, ci fa sapere che ha ben presente le conseguenze della sua decisione interlocutoria, e infatti non concede un altro anno, ma solo (?) 6 mesi.

Le ricadute di questa decisione sono plurime. La pronuncia seppure ispirata al canone della leale collaborazione (fra Corte e Parlamento) non prende in considerazione che chi attende una decisione nel merito dovrà continuare ad aspettarla in carcere; detto altrimenti, c’è un ricorrente che continua ad attendere una risposta di giustizia (costituzionale) da oltre un anno. E se il Parlamento deciderà di non decidere o di ritornare su quanto deciso finora (politicamente parlando) o non sarà in grado di farlo (istituzionalmente parlando, per esempio perché sciolto), si sarà ancora una volta aspettato troppo.

Non solo, si è dato il via a un procedimento che potrà rappresentare un precedente; l’anno di tempo che d’ora in avanti la Corte concederà al Parlamento su questioni "rilevanti" al fine di stimolarne l’intervento, sarà (potrà essere) inteso non come un obbligo a intervenire entro il termine fissato ma solo come un dovere di inizio dei lavori o di stato avanzato degli stessi. Ma anche questa è una valutazione politica; la velocità dell’iter parlamentare non è predeterminabile a priori.

Come si vede, le variabili sono talmente tante e imprevedibili che forse la Corte, assicurando sia la sua funzione di garanzia costituzionale che il limite della discrezionalità legislativa, avrebbe potuto intervenire, lasciando al Parlamento lo spazio di modificare comunque la normativa dichiarata incostituzionale (cosa che sarebbe risultata ovvia).

Questa, forse, sarebbe stata la strada da seguire per questa difficile, anzi difficilissima questione.