Arde l’Aspromonte sotto il cielo crudele di un’estate di fumo e cenere. Valle Infernale, nomen omen, un destino scritto non dagli dei, però, ma da tutt’altra mano. Poche ore fa, il presidente del Parco, Leo Autelitano, ha scritto poche righe grondanti disperazione e fretta per il fuoco che non la smette di avanzare, per gli uomini, pochi, un manipolo appena, che si trovano davanti a un monte di fuoco che non si lascia domare. «Servono urgentemente mezzi aerei, su entrambi i fronti, altrimenti tutto il Parco andrà bruciato, in una catastrofe senza precedenti». Un solo canadair, scrive, va e viene. E intanto le fiamme crepitano e il cielo di afa è listato di nero, il profumo selvatico coperto dall’acre dei tronchi che si disintegrano. Così il patrimonio dell’umanità è diventato cronaca, nera come le vite che si è portato via, nera come gli ettari disintegrati, diventati un tappeto di carbone.

Gianluca Piovesan, docente di Agraria Università della Tuscia, è uno degli esperti (insieme a Daniele Canestrelli) che ha contribuito a redigere il dossier italiano che ha condotto l’Aspromonte al riconoscimento Unesco sancito nella 44esima sessione del Comitato. Oggi però non si festeggia, oggi si contano i danni e si stringono i denti.

«Provo un forte senso di sconfitta, da ricercatore che si occupa anche di didattica e formazione di giovani, guardo impotente quello che sta accadendo e provo delusione, forse non siamo riusciti a trasmettere l’importanza di tutelare le foreste di fronte al cambiamento globale. Le foreste ci servono vive, sono necessarie».

Professor Piovesan, la situazione in Aspromonte pare disperata.
«Le forze sono tutte in campo, ho sentito qualche ore fa i carabinieri forestali che mi hanno assicurato che sono tutti lì, carabinieri, operai forestali, a protezione della faggeta vetusta».

Tutti ma sono pochi.
«Purtroppo è così, li conosco, sono molto validi ma non bastano. Quello che sto sentendo in queste ore, però, è una consapevolezza civile forte, ci sono tante persone che si sono schierate in prima fila per fermare l’avanzata di questi incendi, anche in maniera eroica. Io penso che a fronte dei pochissimi criminali che innescano gli incendi ci sono molti che riconoscono la bellezza e l’importanza della sua tutela. Purtroppo basta anche una sola persona per scatenare un disastro».

In queste ore si parla di difesa del territorio, di prevenzione, di raggruppamento di forze, ma qualsiasi piano, o idea di piano, pare essere saltata o inefficace.
«La lotta agli incendi non si può improvvisare, è un processo che va costruito nel tempo attraverso competenze solide acquisite negli anni, anche perché il problema non è solo domare le fiamme ma bonificare il terreno colpito».

Cosa suggerisce?
«L’ho detto diverse volte, è necessario un piano interforce e, come avveniva in passato, dovrebbe scendere in campo anche l’esercito con l’aviazione leggera che, un tempo, il Coau (il Centro Operativo Aereo Unificato) chiamava mandando sul posto le flotte degli elicotteri. Trent’anni fa questo accadeva comunemente, me lo ricordo bene, ed era abbastanza efficace come mezzo di contrasto agli incendi boschivi. Poi c’è un altro aspetto su cui lavorare molto».

Dica...
«Riguarda proprio la società. La battaglia va combattuta su quel terreno, attraverso l’informazione. Purtroppo di fronte a un incendio doloso non c’è prevenzione che tenga, è importante la risposta che si dà a fronte di un’azione criminale».

Come bisogna intervenire sulle aree già colpite?
«La cosa migliore da fare è lasciare evolvere naturalmente la vegetazione. La natura è sorprendente ha la capacità di rigenerarsi però è importante che le zone ferite non vengano ulteriormente compromesse».

Tornando alla fonte. Accanto al dolo c’è anche un po’ di colpa. Parlo di pratiche, anche frequenti, come l’incendio di fuscelli, arbusti, barbecue improvvisati, che poi sfuggono di mano e determinano drammi.
«Lì si può fare tanto. Va fatta un’opera di sensibilizzazione nei confronti delle persone, cercando di far capire che basta un semplice gesto a scatenare una reazione a catena difficilmente controllabile».

Come incontrollabile è la situazione in tempo reale dal neo sito dell’Unesco. Da esperto mi spieghi perché è così importante tutelare questo patrimonio ambientale, se ne parla spesso di natura e biodiversità ma sembra uno di quegli argomenti che finiscono per svanire in fretta. Un po’ come il clima, se ne discute, e poi tutto viene dimenticato però gli effetti dei cambiamenti iniziamo a vederli, eccome.
«Unesco ha riconosciuto in queste faggete dell’Aspromonte dei processi ecologici che non hanno eguali al mondo perché rappresentano un fenomeno che si esprime in un ambiente mediterraneo, quindi in un territorio che presenta problemi di aridità ed è sensibile agli incendi. I boschi di faggio partono dall’area mediterranea fino a lambire i territori boreali, sono un ecosistema plastico capace di dare l’impronta a un intero continente. Qui troviamo la tessera più meridionale di tutto il patrimonio Unesco, osservarla è strategico, perché quello che avviene in questi boschi d’Aspromonte è lo specchio di quello che accadrà nei prossimi anni in Europa in seguito ai cambiamenti climatici.

L’Aspromonte è una sorta di termometro planetario, possiamo dire così?
«Un termometro e anche un laboratorio del cambiamento globale. Questo patrimonio, che si è conservato per secoli intatto, adesso è affidato a noi che siamo diventati i suoi custodi, non possiamo permetterci di perderlo».

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