Lega cambierà nome per non restituire 49 mln. Ma a un povero cristo non è permesso

Il partito di Salvini si appresta a dribblare le sentenze per truffa ai danni dello Stato contro Bossi e Belsito adottando un nuovo simbolo. Una strategia decisa già a dicembre che ora diventa la scappatoia definitiva dai sequestri sui conti correnti. Anche nella Terza Repubblica si continua a predicare bene e a razzolare male, senza nessun imbarazzo per chi guida il Paese

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di Enrico De Girolamo
2 settembre 2018
21:02
Matteo Salvini
Matteo Salvini

Un cambio di nome che vale 49 milioni di euro. Salvini si appresta a cambiare tutto per non cambiare niente, archiviando per sempre simbolo e nome della “Lega Nord, per l'indipendenza della Padania”, che nei fatti già non esisteva più, passando a una denominazione ufficiale decisamente più leadercentrica: “Lega per Salvini premier”. Questione di lana caprina nel contesto politico attuale, dove il nuovo Matteo già domina la scena, ma passaggio fondamentale per dribblare la giustizia italiana e abbandonare la zavorra della truffa sui rimborsi elettorali perpetrata negli anni 2008-2010 ai danni dello Stato, che ha visto la condanna in primo grado del fondatore del movimento secessionista, Umberto Bossi, e dell’ex tesoriere Francesco Belsito, quello degli investimenti a Cipro e in Tanzania, quello dei diamanti.

 



Salvini, che guida il partito dal 2013, non si è mai costituito parte civile nel processo contro il Senatur, mentre l’ha fatto in quello contro Belsito, salvo poi, nel 2104, ritirare la richiesta di risarcimento danni: «Chiedere soldi a chi non li ha - disse - è una perdita di tempo e poi sono cose che fanno parte del passato». Insomma, chi ha avuto ha avuto, scurdammoce o’ passato, declinato possibilmente con accento lombardo.

 

Intanto la giustizia ha fatto il suo corso e nell’aprile scorso la Cassazione ha dato ragione alla Procura di Genova che chiedeva di procedere al sequestro delle somme disponibili anche in futuro su conti correnti e depositi riferibili al partito, fino alla fatidica soglia di 48milioni, 696mila e 617 euro. Sul rinvio della Suprema corte si pronuncerà mercoledì 5 settembre il Tribunale del riesame. Se il sequestro a tappeto sarà confermato, la Lega si sfilerà cambiando nome. Una strategia già decisa da mesi e precisamente dal dicembre scorso, quando sono stati depositati nuovo simbolo e statuto.
«Di fronte a un nuovo soggetto giuridico completamente autonomo, non potremmo fare nulla rispetto ai versamenti futuri», ha dichiarato il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi.

 

Quella che ai più ingenui poteva sembrare come una iattura senza scampo, può rivelarsi un’ulteriore occasione di crescita per Salvini, che avrebbe l’opportunità di completare la metamorfosi del partito a sua immagine e somiglianza, chiudendo per sempre la stagione secessionista degli albori e proiettandosi in una dimensione esclusivamente nazionale, senza perdere un solo punto percentuale nei sondaggi sul gradimento dei leader.

 

Un epilogo che è il segno di tempi in cui tutto è relativo alle opinioni e al consenso fluido che scorre sui social, tempi dove certezze scientifiche come i vaccini possono essere messe in discussione da chi “non è d’accordo” e dove le sentenze si possono aggirare con un salto dal notaio. Un mondo di terrapiattisti con centri di gravità opinabili.
Craxi e la Prima Repubblica crollarono sotto il peso delle inchieste del Pool di Milano, che anche allora erano concentrate sul finanziamento pubblico dei partiti che aveva clamorosamente fallito. Oggi si chiamano “contributi elettorali”, altro cambio di nome che nell’aprile del 1993 è servito per beffare il referendum popolare dello stesso anno, appena 8 mesi dopo, con cui oltre 31 milioni di italiani “decisero” che il foraggiamento con soldi pubblici andava abolito. Niente di tutto questo è accaduto.

 

La Lega cambierà simbolo ma andrà avanti, macinando probabilmente più consenso di prima e avvicinandosi alle Europee con l’obiettivo del 40 per cento. Forse ci riuscirà, forse no, ma non è questo il punto. Il punto è che un cittadino normale, che sia un povero cristo tirato in mezzo o un criminale, non ha la possibilità di farla franca così facilmente. Non ha la possibilità di essere condannato da un giudice e cambiare semplicemente indirizzo per non essere chiamato a rispondere di quanto ha sottratto. A un partito, a quanto pare invece, è permesso, senza nessun imbarazzo degli alleati di governo ispirati dall’ormai poco credibile “uno vale uno” e con buona pace di tutte le chiacchiere sull’auspicata giustizia inflessibile, purché sia inflessibile con gli altri.

 

Enrico De Girolamo

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