Una mancata compravendita dietro l'omicidio del barone Musco

Arrestato l'imprenditore Teodoro Mazzaferro, accusato di aver ucciso l'uomo nel marzo 2013. Dall'ordinanza emerge il movente: una possibile intermediazione immobiliare da 5 milioni di euro, che serviva a saldare un vecchio debito del barone e saltata per l'opposizione della sorella. Rigettata la richiesta d'arresto per il nipote Berdji Domenico Musco
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di Consolato Minniti
7 ottobre 2016
20:52

«Non hanno capito niente». Era sicuro di spuntarla, Teodoro Mazzaferro. Ed invece, contrariamente alla sua convinzione, i carabinieri, diretti da Francesco Cinnirella, avevano capito benissimo. Al punto che lo stavano già intercettando e sapevano perfettamente come fosse passato dal luogo in cui fu ucciso il barone Livio Musco. Ed è proprio Mazzaferro, 77enne imprenditore molto noto nella Piana di Gioia Tauro, a dover rispondere di quel delitto, per il quale i carabinieri lo hanno arrestato nella giornata di oggi. Il provvedimento è stato emesso dal gip del Tribunale di Palmi, su richiesta della Procura retta da Ottavio Sferlazza.


Per la verità, i pubblici ministeri (indagini affidate prima a Luigi Iglio, poi anche a Rocco Cosentino) avevano richiesto l'emissione di una misura restrittiva anche per il nipote del barone, Berdji Domenico Musco, che risulta semplicemente indagato a piede libero, dato il rigetto della richiesta da parte del gip.



Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di ricostruire una storia quanto mai aggrovigliata, che ha tenuto con il fiato sospeso un'intera comunità, che si è domandata per anni cosa avesse portato all'uccisione del barone Livio Musco.

 

La ricostruzione. È il 23 marzo del 2013, quando in via Vallamena, di Gioia Tauro, si sentono due colpi di pistola. Musco è riverso sulla scrivania della sua stanza, mentre attende il fratello Giuseppe, per andare a cenare fuori insieme. Giunto sul posto, Giuseppe nota il corpo immobile di Livio e del sangue fuoriuscire dal naso. Chiama a gran voce il nipote Berdji Domenico, che risponde solo dopo qualche secondo. Viene chiamato il 118, mentre il corpo di Livio è posto sul pavimento, per favorire la circolazione sanguigna. Si pensa, infatti, che l'uomo abbia un malore. All'arrivo dell'ambulanza, Livio Musco ha ancora delle funzioni vitali attive, ma muore poco dopo. Ed è durante l'esame del cadavere che ci si accorge di un colpo d'arma da fuoco vicino al naso. Il barone è stato colpito con una pistola. Le indagini, dunque, si concentrano subito sul contesto familiare e degli affari di Livio Musco.

 

Le prime conversazioni. Già dalle ore immediatamente successive al delitto, i familiari del barone iniziano a pensare a cosa abbia potuto armare la mano del sicario. Si fanno diverse ipotesi, con una costante: nessuno poteva volere morto Livio Musco, persona ritenuta troppo pacifica per poter dare fastidio a qualcuno. Fino a quando uno dei parenti non tira fuori la storia di un vecchio prestito che Musco ha da Teodoro Mazzaferro, durante la sua carcerazione. Ha immediato bisogno di denaro e così chiede circa 20mila euro a quell'imprenditore che ritiene suo amico.

(Teodoro Mazzaferro)

Viene fuori anche una lite furibonda fra i due, con parole grosse e qualche minaccia. Informazioni rese subito dai congiunti di Musco ai carabinieri, che fanno andare le indagini verso una precisa direzione.

 

Gli elementi a carico di Mazzaferro. Effettivamente viene riscontrata l'esistenza di questo debito, così come si ricostruiscono tutti i movimenti dell'imprenditore nella sera in cui Musco viene ucciso. Si scopre che l'uomo, proprio nell'ora in cui avvenne l'omicidio, si trovava nei pressi dell'abitazione del barone, contrariamente a quello che invece Mazzaferro sostiene. Ai carabinieri, infatti, riferisce di non essersi fermato assolutamente, ma di essere solo passato velocemente davanti all'abitazione del barone né di aver notato nulla di strano (ma la zona era presidiata dagli investigatori). Le riprese dei sistemi di video sorveglianza, così come il Gps dell'autovettura dell'uomo, smentiscono queste dichiarazioni: Mazzaferro fu per diversi minuti vicino alla casa di Musco. A ciò va aggiunto un atteggiamento di sicuro assai ambiguo dell'uomo, come descritto dal gip nell'ordinanza di custodia cautelare, nel momento in cui cerca di concordare con un suo collaboratore le cose da riferire ai militari. A giudizio dei carabinieri, tuttavia, Mazzaferro compie un altro importante errore: per allontanare da sé ogni sospetto, subito dopo il delitto, sparge la voce che quel debito di Musco nei suoi riguardi era stato saldato e che non aveva più alcuna pendenza. Le indagini dimostrano che le cose stanno in modo assai diverso.


Altro errore non da poco è quello che Mazzaferro commette, quando afferma di aver saputo dell'omicidio, poco dopo il fatto, da una non meglio precisata persona, in un bar dove si era recato per prendere un caffè. Ma che si tratti di omicidio, lo si potrà dire solo molto dopo, e cioè quando il medico del pronto soccorso verificherà la presenza di un foro d'arma da fuoco.

 

Il movente del delitto. Andando a fondo alla vicenda, anche grazie alle testimonianze dei parenti del barone, si scopre che Livio Musco intende saldare quel suo debito, facendo sì che Mazzaferro diventi intermediario per la vendita di un'immobile di pregio della famiglia, sito nel quartiere Parioli di Roma. Un affare da cinque milioni di euro, su cui Mazzaferro ha una quota del 3%, oltre alla possibilità di entrare in un giro di compravendite di livello assai elevato, con enorme prestigio per la sua attività lavorativa. L'affare si arena, però, di fronte al rifiuto della sorella di Livio, Maria Ida, con ciò rendendo impossibile l'estinzione del debito di Musco nei confronti di Mazzaferro. Ed a poco valgono, secondo gli inquirenti, le dichiarazioni dell'indagato per il quale la lite avuta con la vittima fu dovuta ad una nuova richiesta di prestito di 50mila euro. È una versione che non convince per niente i magistrati.
La posizione del gip è chiara: «Appare verosimile che il motivo da cui è scaturito l'omicidio è costituito dalla mancata conclusione della vendita dell'abitazione dei Musco, sita al quartiere Parioli di Roma, un affare che avrebbe fruttato a Mazzaferro un compenso rilevante come mediatore. (...) Appare poco verosimile, invece, che il movente sia legato alla mancata estinzione del debito di 20mila euro, la cui entità, per una persona comunque mediamente facoltosa come Mazzaferro, assume relativamente rilievo».

 

Dissidi familiari accesi. Fin qui gli elementi a carico di Mazzaferro. Ma c'è tutto un contesto familiare che ruota attorno alla vita di Livio Musco. «L'affare – scrive il gip Paolo Ramondino nell'ordinanza – s'interseca con le vicende familiari alquanto torbide della famiglia Musco, un complesso familiare tanto ampio quanto animato da forti dissidi interni che, negli ultimi anni, ha portato a smembrare parte del vasto patrimonio immobiliare alla stessa riconducibile. Livio Musco, al di là delle dichiarazioni di facciata rilasciate da alcuni suoi familiari, non era persona molto amata all'interno della sua famiglia, probabilmente per la sua scarsa oculatezza e il suo modo di condurre gli affari in maniera piuttosto spericolata. Senza dimenticare i suoi pregressi guai giudiziari che avevano macchiato il nome di una famiglia prestigiosa e rispettata». Ed è proprio dalla situazione familiare che partono gli accertamenti nei confronti del nipote di Musco.

 

La posizione di Berdji Domenico. Senza addentrarsi troppo nei dettagli tecnici, è sufficiente spiegare come vi siano delle incongruenze nel racconto del nipote del barone. In primis, un elemento sul quale sono stati disposti approfondimenti, è quello relativo alla prova dello stub. Sul corpo di Berdji sono state rinvenute particelle di polvere da sparo. Ciò ha fatto allarmare gli investigatori, facendo ritenere che ci potesse essere un coinvolgimento dell'uomo nel delitto. A questo dato, infatti, si aggiunge anche la circostanza del momento dell'omicidio. Berdji ha sempre affermato di non essersi accorto di nulla, ma di aver sentito solo un rumore simile a quello di un libro che cade. Niente colpi di pistola, urla o altro che facesse presagire qualcosa di strano. Solo il clacson dello zio sarebbe stato sentito, nonché la sua successiva richiesta di aiuto. Ebbene, per gli investigatori le cose non stanno così. Il computer di Berdji segnala una fine delle attività compatibile con l'orario in cui è avvenuto l'omicidio. Così come la presenza di particelle di polvere da sparo, farebbe pensare ad una sua presenza nel momento in cui è avvenuto il fatto di sangue. La realtà, però, spiega come anche addosso a Giuseppe Musco siano state trovate particelle e ciò fa presumere che le stesse si siano depositate a causa di quella "nuvola" che rimane per qualche tempo nel luogo in cui è avvenuto uno sparo. Fra l'altro, la Procura – secondo il gip – non è riuscita ad argomentare a dovere quale sarebbe stato il ruolo di Berdji e l'interesse in tutta la vicenda. Una posizione al momento piuttosto debole, dunque, non solo sotto il profilo delle esigenze cautelari, ma anche sull'aspetto della gravità indiziaria. Una convinzione che ha portato il gip a rigettare la richiesta di custodia cautelare in carcere, accolta, invece, per Teodoro "Toro" Mazzaferro.

Giornalista
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