Calvari giudiziari

Scalea: sei anni di processo per arrivare alla verità, la storia dell’ex vicesindaco Mauro Campilongo

VIDEO | L'ex consigliere comunale denunciò un affidamento diretto ritenuto irregolare. Da quel momento cominciò per lui un lungo periodo di emarginazione, costellato da insulti e minacce. Poi il rinvio a giudizio 

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di Francesca  Lagatta
10 ottobre 2024
21:01

Ci sono voluti sei anni per sentirsi dire che era innocente e almeno altri otto per parlare pubblicamente di quella dolorosa vicenda che l'ha inevitabilmente segnato per sempre. Mauro Campilongo, avvocato ed vicesindaco di Scalea durante il mandato di Mario Russo, affida a LaC News24 le memorie di un processo in cui, per la prima volta, ha preso parte nelle vesti di imputato. La questione affonda le radici nella malagiustizia e nella malapolitica locale che hanno costretto l'indagato a subire l'onta mediatica, il pubblico ludibrio e anche il grave pregiudizio personale nei suoi confronti, aggravato dal fatto fosse un avvocato e un uomo delle istituzioni.

L'origine della vicenda

Riavvolgiamo il nastro. Nel 2010, Campilongo si ricandida alle elezioni di Scalea, ma stavolta viene eletto tra le fila della minoranza. Lo scontro con la maggioranza del sindaco Pasquale Basile (quest'ultimo indagato e condannato nell'ambito dell'inchiesta anti 'ndrangheta Plinius, ma assolto definitivamente dall'accusa di associazione mafiosa, ndr) genera tensioni. In un consiglio comunale del novembre dello stesso anno, Campilongo invita l'amministrazione a revocare una concessione che riguardava le aree consortili «perché data senza alcun avviso, ma a semplice domanda diretta». Sono 3.600 metri quadrati di terreno. Il giorno successivo gli uffici comunali revocano l'affidamento, ma per il consigliere Campilongo cominceranno anni di inferno.


Le minacce

Quello stesso giorno, Campilongo viene aggredito verbalmente in un bar del posto, alla presenza di numerosi testimoni. Un uomo, parente di un amministratore, gli punta il dito in faccia, pronunciando la frase: «Lacrime e sangue per te la tua famiglia. Smetti di parlare di questa concessione perché tu sai di chi è». Con tutta probabilità, l'uomo doveva essere un prestanome di qualcuno parecchio interessato ai terreni, ma senza requisiti per ottenerli. Un'altra persona lo insulta in strada mentre si trova in compagnia di alcuni famigliari.

I controlli sulla villetta

La mattina del 26 dicembre, un mese dopo il famigerato consiglio comunale, alla sua porta si presentano i vigili urbani di Scalea, perché nei giorni precedenti è giunta al Comune una lettera in cui si parla di abusi edilizi relativi alla sua abitazione. L'uomo che firma la missiva è Luca Cava. Ma nessuno lo conosce e forse nemmeno esiste; è molto più probabile che si tratti di un infelice pseudonimo che, ancora una volta, nasconde una minaccia. In dialetto, "lu ca*ava" significa "lo pagava", come a dire "quel che ha fatto lo paga". Gli agenti gli comunicano che nella sua pratica di concessione edilizia manca un documento. «Si chiama velina - precisa l'avvocato - e attesta il protocollo del genio civile dei calcoli del cemento armato». Chi segue quella pratica afferma di aver già consegnato l'atto al Comune, ma Campilongo ne richiede nuovamente una copia e la riconsegna agli uffici.

Il numero sovrapposto

Che sia stata una mero errore involontario o uno scherzo del destino beffardo non è mai stato chiarito, fatto sta che quella pratica ha un numero identico a un'altra pratica in corso. Quindi, gli uffici del Comune di Scalea ipotizzano che uno dei due documenti possa essere artefatto e denuncia Campilongo per falso. Ma la procura di Paola apre un'inchiesta e delega le indagini alla Polizia locale. «Un'altra cosa grottesca. Il comune mi denuncia per falso - afferma l'ex consigliere comunale - e il pubblico ministero invece di delegare i Carabinieri o altri organi polizia giudiziaria, delega gli stessi vigili urbani».

Il lungo processo e l'assoluzione

Campilongo viene rinviato a giudizio e per lui comincia un processo, che tra ritardi e rinvii, dura sei lunghissimi anni, periodo durante il quale, l'imputato vive un forte disagio: «Un senso di vergogna ingigantito dall'isolamento». Poi, finalmente, a conclusione del lungo iter, arriva l'assoluzione con formula piena, perché i giudici certificano che quel documento è reale e non c'è stato alcun imbroglio. Alla lettura del verdetto la sensazione di sollievo è tanta, ma dentro resta un po' d'amarezza, che nemmeno la sentenza a suo favore può cancellare. «Durante il processo hanno chiesto ai responsabili, due istruttori direttivi del genio civile di Cosenza, se fossero stati loro a firmare il documento e hanno detto di sì. Questo hanno fatto in tutto quel tempo». I due funzionari erano già stati sentiti nella fase iniziale delle indagini condotte dagli organi di polizia giudiziaria e già in quella occasione avevano confermato che la firma apposta su quel documento era autentica. Ma evidentemente quella deposizione non era bastata a chiudere il cerchio e a sgomberare il campo a ogni dubbio. Oggi Mauro Campilongo ha deciso di parlare della sua esperienza per togliersi un peso e alzare il velo sul sistema giudiziario italiano, e non solo, che certamente suscita profonde riflessioni.

 

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