Rapimento Moro, la rivelazione del generale: «La ‘ndrangheta lo cercava». E spunta la cosca De Stefano

Il generale Cornacchia racconta le sue verità: dai traffici di armi sull’asse Guardigli-De Stefano-D’Agostino alle ricerche dello statista Dc, dopo il rapimento. La mafia siciliana fu avvisata, mentre i calabresi continuarono a cercarlo. Il ruolo dei fratelli Varone e quel “sacrificio” per trovare Moro
di Consolato Minniti
2 novembre 2016
22:30

«Mentre la mafia è venuta a conoscenza di questa retromarcia verso la metà di aprile, la ‘ndrangheta no. Evidentemente, chi gestiva, chi guidava la macchina, il motore, ha inteso avvertire la mafia e non anche la ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta, per quanto io so, erano alcune faide che si erano interessate e si erano dichiarate disposte a lavorare».


Ha una memoria storica notevole, il generale dei carabinieri in pensione, Antonio Federico Cornacchia, chiamato a deporre davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Perché checché se ne possa dire, il gruppo di lavoro coordinato dal presidente Beppe Fioroni sembra assolutamente intenzionato ad approfondire, con dovizia di particolari, tutte le sfumature che possano portare ad eventuali collegamenti fra il rapimento e l’uccisione dello statista Dc e la criminalità organizzata. Un link che ora trova nuova linfa nelle parole del generale, il quale ammette con certezza che, tanto la mafia siciliana che la ‘ndrangheta calabrese furono interessate per la liberazione di Moro. Almeno fino ad un certo punto. Ossia la metà di aprile del 1978. Da lì in poi qualcosa cambiò.


 

Cosa nostra fu avvisata di questo mutamento di rotta e cioè che nessuno doveva più lavorare per la liberazione di Moro. La ‘ndrangheta, invece no. Ma per comprendere al meglio quale sia il coinvolgimento della criminalità organizzata calabrese, occorre fare un passo indietro e andare a scandagliare la figura dell’imprenditore Luigi Guardigli.


Il rapporto riservato del tenente colonnello. È il 1977 e l’allora giovane ufficiale Cornacchia indaga su un presunto traffico internazionale di armi, che coinvolge anche Luigi Guardigli. Nelle carte, viene fuori a più riprese la figura di Tullio Olivetti, il proprietario del bar situato all’angolo tra via Fani e via Stresa. Guardigli è amministratore della Racoin, società con sede a Roma, che si occupa d’import-export di merce in tutto il mondo. Dagli elementi in mano alla commissione, emerge come la Racoin sia interessata alla compravendita di armi.

 

Le intercettazioni svelano la presenza di soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta e coinvolti nel traffico di armi. Un quadro ben dipinto da Cornacchia nel suo rapporto alla Procura di Roma. Ecco cosa scrive l’allora tenente colonnello: «Questo nucleo, nel quadro delle indagini relative agli ultimi sequestri di persona avvenuti nel territorio nazionale è venuto a conoscenza che elementi della mafia calabrese, facenti parte dei clan D’Agostino e De Stefano, sarebbero in contatto con tale Guardigli Luigi (…)Lo stesso, nel decorso mese di dicembre, si sarebbe recato ad Archi (Reggio Calabria), per prendere direttamente contatti con elementi della mafia locale e per fornire materiale tecnico (microspia e radioricetrasmittente)».


L’antica trattativa Stato-mafia. Tornano d’attualità, dunque, i sequestri di persona della ‘ndrangheta. Come già affermato tempo addietro dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, quel periodo fu un vero e proprio laboratorio di collegamenti fra alcuni pezzi dello Stato e la criminalità organizzata. Perché cos’altro erano le trattative per la liberazione degli ostaggi, se non un continuo mediare fra Stato e ‘ndrangheta? E non era forse quella già una trattativa vera e propria? Il rapporto di Cornacchia conferma i rapporti fra Guardigli e i clan De Stefano e D’Agostino.

 

L’imprenditore sarebbe andato addirittura ad Archi, quartier generale del gotha delle cosche della città di Reggio Calabria, a conferma dell’importanza della città dello Stretto, sin dal 1970, ossia dal periodo dei moti per la rivendicazione del capoluogo. Occasione ghiotta per la destra eversiva e la ‘ndrangheta, di avvicinarsi ed intrecciarsi, creando un grumo di potere in grado di accedere ai salotti più importanti dello Stato italiano.


La richiesta d’arresto per De Stefano. Ma torniamo all’audizione del generale Cornacchia. Questi spiega come non solo risultassero collegamenti fra la Racoin e la malavita calabrese, ma addirittura, riferendosi evidentemente al boss Paolo De Stefano (ucciso il 13 ottobre del 1985 ad Archi), lo stesso ufficiale ne chiese la perquisizione oltre che l’ordine di arresto. Ma De Stefano era latitante e – ricorda il generale - «riuscì a non farsi prendere».


Varone, uomo dei clan “sacrificato” per Aldo Moro. L’audizione prosegue e, dopo aver delineato la figura di Tullio Olivetti (proprietario di un esercizio commerciale chiuso misteriosamente, nonostante fosse ben avviato e luogo divenuto base essenziale per i brigatisti nella loro azione di via Fani), arriva un momento nel quale Fioroni nomina Varone, provocando la reazione di Cornacchia. Riportiamo di seguito lo scambio di battute, piuttosto emblematico, da cui si ricava il ruolo dei fratelli Varone, uomini appartenenti alla ‘ndrangheta.


Antonio Federico Cornacchia: Presidente, se mi consente, io le chiederei: lei ha nominato Varone. Chi dei Varone? Il nome lo sa lei?
Presidente: Sì. Noi l'abbiamo conosciuto nell'ambito delle carte di indagine...

Antonio Federico Cornacchia: Ci sono due Varone. Uno era un capo faida e un altro era...

Presidente: Qui si tratta di Enzo Varone.
Antonio Federico Cornacchia: Vincenzo. Allora era il capo faida. Perché c'era l'altro, uno dei sacrificati, perché si interessò di Moro.
Federico Fornaro: Mi faccia capire, abbia pazienza. Che cosa vuol dire? Se può essere più esplicito, cortesemente.
Antonio Federico Cornacchia: Dunque, c'erano due Varone. C'era uno che si chiamava Antonio, che non era il capo faida. Invece, Vincenzo era il capo faida e aveva i contatti, ovviamente, con le varie organizzazioni, che i loro «soci» non avevano. Ecco perché ho chiesto al presidente chi era questo.
Federico Fornaro: No, no. Lei ha detto che il secondo Varone è stato sacrificato perché si è occupato del caso Moro.
Antonio Federico Cornacchia: Sì, si è occupato del caso Moro.
Federico Fornaro: Cosa vuol dire «sacrificato»?
Antonio Federico Cornacchia. Perché si è interessato di localizzare dove si trovasse prigioniero l'onorevole Moro.
Marco Carra: Sacrificato?
Antonio Federico Cornacchia: «Sacrificato» tra virgolette. Io ho elencato... Dato che il presidente mi sta facendo...
Presidente: Vorrei capire una cosa. A monte, Enzo Varone sappiamo chi è, perché l'abbiamo letto nelle carte. Antonio Varone chi è?
Antonio Federico Cornacchia: Antonio Varone è il fratello di Vincenzo.
Presidente. Che, però, non è malavitoso.
Antonio Federico Cornacchia. È malavitoso.
Presidente. È un malavitoso anche lui.
Antonio Federico Cornacchia. È un malavitoso che...
Federico Fornaro. Si è occupato di ricercare...
Antonio Federico Cornacchia. Si è occupato di ricercare, come tanti altri, sia mafiosi, eccetto la camorra, che io sappia.
Federico Fornaro. In che fase del rapimento, generale?
Antonio Federico Cornacchia. Dopo il sequestro Moro, dopo il 16 marzo.
Federico Fornaro. Questo l'ho capito, ma prima o dopo il 18 aprile?
Antonio Federico Cornacchia. No, dal 16 marzo alla metà... al 18 aprile. Dopo il 18 aprile è cambiato tutto. Il quadro della situazione è cambiato.
Federico Fornaro. Ce lo spiega?
Presidente. Glielo chiediamo dopo.
Antonio Federico Cornacchia. Non sono stato io a cambiarlo. Io mi sono trovato in difficoltà.
Presidente: A questo ci arriviamo. Quindi, Antonio Varone?
Antonio Federico Cornacchia. Antonio Varone, che poi fu ucciso a Milano.
Presidente. Fu ucciso a Milano in relazione a questo fatto, secondo lei?
Antonio Federico Cornacchia. A questo fatto... Io adesso non ho gli elementi di riscontro, però io ho seguito molto bene il caso Pecorelli. Anch'io, purtroppo, in quel periodo, oltre a essere comandante del nucleo, rinvenivo anche i cadaveri. Quindi, oltre a Moro, anche Pecorelli, come Varisco e come tanti altri. Quindi, lavorando su Pecorelli, Pecorelli aveva già questa profezia («adesso ci sarà il massacro», dopo il caso Moro) e poi, in un certo qual modo, queste profezie si sono concretizzate.
Presidente. Lei dice che le dichiarazioni di Pecorelli sono state profetiche, perché poi, dopo la morte di Moro, è avvenuto un massacro. I fratelli Varone erano due.
Antonio Federico Cornacchia. Due.
Presidente. Da quanto risulta dalle carte dell'inchiesta...
Antonio Federico Cornacchia. Sì, c'è soltanto Vincenzo.
Presidente. C'è solo Vincenzo, però poi c'è un passaggio, e questo è utile per noi: Vincenzo Varone è quello che ha rapporti con la malavita, è quello che mette in piedi il traffico d'armi, però Antonio Varone è quello che si era pensato che per conto della ’ndrangheta si fosse attivato per cercare di sapere dov'è Moro, a Roma e anche a Milano, se non sbaglio.
Antonio Federico Cornacchia. A Roma in modo particolare.


La ‘ndrangheta non sa che le ricerche sono sospese. La seduta prosegue in modo riservato. Tutto è secretato, poiché le informazioni chieste a Cornacchia sono particolarmente sensibili. Poi, ecco riprendere la parte pubblica e la parte che più interessa: la ‘ndrangheta s’interessò di ritrovare Aldo Moro, ma ad un certo punto le ricerche furono interrotte. La mafia siciliana lo seppe, la ‘ndrangheta no. E Cornacchia fa presente come tutto cambiò dal 18 aprile. «Dal 16 marzo in poi – spiega il generale – non dico ogni giorno, ma quasi, eravamo convocati». Tutti dicevano: «Dateci le notizie» e concludevano chiedendo di «fare l’impossibile».

 

Secondo Cornacchia, «dicevano “l’impossibile” ovviamente nel rispetto della normativa, e noi si agiva. Questo “impossibile” qualcuno l’ha interpretato in un modo forse anche esagerato, per cui non si è sottratto dal servirsi anche di elementi controindicati». Dalla commissione chiedono direttamente: la criminalità organizzata? E Cornacchia risponde affermativamente. Poi, dal 18 aprile si «cambia musica». In che senso? Ascoltate Cornacchia: «Mentre la mafia è venuta a conoscenza di questa retromarcia verso la metà di aprile, la ‘ndrangheta no. Evidentemente, chi gestiva, chi guidava la macchina, il motore, ha inteso avvertire la mafia e non anche la ‘ndrangheta.

 

La ‘ndrangheta, per quanto io so, erano alcune faide che si erano interessate e si erano dichiarate disposte a lavorare». Sì, le cosche nell’affaire Moro ci entrarono eccome.

 

(continua...)

 

Consolato Minniti

Giornalista
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