«Allo Stato ho dato un figlio vivo e me l’ha restituito morto»

VIDEO | La madre e la sorella di Antonio Saladino deceduto lo scorso 18 marzo nel carcere Arghillà di Reggio Calabria attendono ancora che si faccia luce sul caso: «Della morte noi avvisati solo il giorno dopo da un prete»

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di Angela  Panzera
20 ottobre 2018
12:12
Antonino Saladino insieme alla sorella Erminia e al nipote
Antonino Saladino insieme alla sorella Erminia e al nipote

Mamma Caterina ed Ermina, la sorella di Antonino Saladino da 8 mesi aspettano di sapere perché il loro caro è morto. Il 31enne è deceduto la sera del 18 marzo scorso al carcere reggino di “Arghillà”. La procura ha disposto l’autopsia ma, ancora le due donne attendono le risultanze del medico legale. «Io non so cosa sia successo-dice la madre alla nostra testata - so solo che allo Stato ho dato un figlio vivo e me l’ha restituito morto».

Da giorni Antonino stava male e la sorella si chiede ancora oggi perché l’istituto penitenziario non abbia richiesto prima l’intervento dell’ambulanza. «Mio fratello da circa un mese non stava bene, aveva sempre la febbre. Quel giorno in particolare – afferma Erminia- vomitava anche. Ora io mi chiedo: «Ma se stava male fin dal mattino perché solo la sera tardi hanno richiesto l’intervento del 118? Non potevano richiederlo prima?». Quando i sanitari del 118 infatti, giungeranno presso il carcere reggino non potranno fare altro che constatare il decesso.Antonino era la colonna portante di questa famiglia. Dalla morte del padre aveva iniziato a lavorare come imbianchino. È finito in carcere per droga ma, il processo ancora doveva iniziare. «Mio figlio- ci dice Caterina Amaddeo - non era un delinquente. Era in attesa del processo quindi ancora non era stata stabilita un’eventuale colpevolezza. Nino era un ragazzo gentile. Si era sobbarcato sulle proprie spalle il peso di una famiglia. Oltre che per me, provvedeva per mia figlia e mio nipote. A Santa Caterina (quartiere reggino ndr) lo conoscevano tutti ed era stimato». Con la sua morte tutto è andato in pezzi ed Erminia e Caterina riusciranno ad andare avanti solo se lo stato gli fornirà le giuste risposte. «Provo tanta rabbia- dichiara Erminia - mio fratello, se si fossero attivati prima, poteva essere salvato. Non so di chi siano le responsabilità ma, se c’è un colpevole deve pagare. La magistratura ci dica come è morto. Vogliamo sapere solo questo. Secondo me - continua la giovane- non hanno capito la situazione. Si sono limitati a somministrare farmaci generici. Potevano e dovevano fare analisi. Indagare insomma, sulle sue condizioni».


«Avvisati solo il giorno dopo dal prete»

Ci sono tante circostanze ancora poco chiare. Una su cui, da ben otto mesi, si interrogano le due donne è il perché l’istituto penitenziario non abbia comunicato subito alla famiglia del peggioramento dello stato di salute del giovane e poi anche perché l’amministrazionepenitenziaria non abbia provveduto a comunicare il decesso in tempi rapidi ma, solo il giorno dopo.«Quella sera - racconta Erminia Saladino- hanno fatto solo una telefonata a mia madre, intorno all’una di notte, che purtroppo non ha risposto vista l’ora e poi non hanno più richiamato. Solo il giorno dopo un prete è venuto ad avvisare e non l’ha detto neanche a noi direttamente ma, ad alcuni familiari perché quella mattina sia io che mia madre non eravamo in casa». Vista la situazione particolarmente delicata l’istituto penitenziario avrebbe dovuto fare di tutto per comunicare tempestivamente il decesso di Antonino Saladino. «Non è modo questo di comunicare una morte. Dovevano rintracciarci - incalza la sorella- durante la notte e dovevano avvisarci prima e no quando non c’era più nulla da fare». Erminia e Caterina infatti, non hanno potuto neanche salutare il loro congiunto. «Sono distrutta- afferma la signora Caterina Amaddeo. Non auguro a nessuna mamma di passare quello che ho subito io. I detenuti non sono persone di serie B. C’è chi ha sbagliato sicuramente ma lo Stato non può lasciarli morire così. Noi siamo stati completamente abbandonati».

Oltre a loro Antonino ha lasciato il nipote Natale, per lui in carcere aveva costruito una barca in legno che la famiglia custodisce gelosamente. Il piccolo però, non sa che lo zio non c’è più. «Per mio figlio, Antonino -afferma Erminia- era come un padre. Stravedevano l’uno per l’altro. Ancora oggi non ho il coraggio di dirgli che è morto». Una vita andata via troppo presto quella del 31enne reggino. Un vuoto che difficilmente riuscirà a colmarsi. Solo la verità e il senso di giustizia potrà aiutare le due donne a continuare a sperare per il loro futuro. «Niente è più lo stesso senza mio fratello, l’unica cosa che mi rimane da fare è lottare per sapere cosa gli è successo», conclude tra le lacrime la sorella Erminia.

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