Processo Maestrale

«Per un colpo da 40mila euro in gioielleria a Mileto abbiamo sequestrato un parroco»: i racconti di ’ndrangheta del killer pentito

Moscato rievoca il sistema per mettere a segno le rapine nel Vibonese. Le moto rubate, l’oro mandato a Marcianise tramite un gioielliere, i soldi usati per pagare avvocati, droga e armi. O soltanto per «fare la bella vita». L'appostamento per uccidere il boss Pantaleone Mancuso

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di Alessia Truzzolillo
21 agosto 2024
18:21

«… Abbiamo sequestrato pure un parroco che c’era là dentro, che voleva uscire a tutti i costi…»
Una rapina concitata quella avvenuta a Mileto nel 2011. Questo racconta, nell’aula bunker di Lamezia Terme, il collaboratore di giustizia Raffaele Moscato nel corso del processo Maestrale, istruito dalla Dda di Catanzaro contro le cosche del vibonese.
Nei racconti dell’ex killer, le cosche sono, in particolare, quella dei Piscopisani, della quale faceva parte lo stesso Moscato, e quelle di Mileto cui apparteneva Silvano Mazzeo che per il colpo aveva procurato «una moto tipo enduro e uno scooterone rubati».
Gli esecutori materiali sarebbero stati David Angelo, dei Piscopisani, e Moscato, i quali scelsero lo scooterone e si diressero alla gioielleria che distava circa un chilometro dal garage nel quale Mazzeo aveva nascosto le moto.

La fuga

Nel negozio, dice Moscato, c’era un parroco che viene preso sotto sequestro e «c’era la signora e ci siamo fatti aprire questa cassaforte e ci siamo fatti consegnare tutto l’oro che c’era». I giornali scrissero di un colpo da 250mila euro ma Moscato assicura che non arrivarono a 40mila euro.
Abbandonati parroco e gioielleria, prosegue il teste, «alla fuga abbiamo lasciato la moto più o meno un po’ più lontano di dove c’era il garage appoggiata in un pezzo di muro, una staccionata, comunque non gli abbiamo dato fuoco e da lì nel recupero c’era Rosario Battaglia».


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L’oro venduto con l’aiuto di un altro gioielliere

Atteso qualche giorno dopo la rapina, il gruppo manda il maltolto in un grosso centro orafo a «Marcianise, in provincia di Caserta», dove «ogni volta che facevamo una gioielleria mandavamo questo oro tramite un commerciante, un gioielliere, che faceva lo stesso lavoro come rappresentante di gioielli, e ce lo facevamo cambiare in soldi, e poi da lì abbiamo diviso i guadagni con Silvano Mazzeo», dice Moscato.

La rapina alla rivendita di bibite

Il denaro venne suddiviso e usato per diversi scopi: «… dal sostentamento, magari per un avvocato, sia per acquistare della droga, per le armi oppure per fare la bella vita».

Di rapine Moscato ne ha commesse tante e tante gli vengono contestate soprattutto nell’ambito del procedimento Rimpiazzo istruito dalla Dda proprio contro la cosca dei Piscopisani. Nel corso del processo Maestrale il collaboratore si concentra, in particolare su due rapine compiute, dice, con l’aiuto dell’imputato Silvano Mazzeo.
Oltre a quella nella gioielleria di Mileto, Moscato – rispondendo alle domande del pm Annamaria Frustaci – ne cita un’altra compiuta nel 2011 ai danni di una rivendita di bibite «verso Vena di Ionadi, campo di aviazione di Vibo Valentia».
Questa rapina avrebbe fruttato 60mila euro in contanti e 250mila euro in assegni «che volevamo utilizzare a titolo di riscatto, perché tutti gli assegni che gli facevano non erano assegni tracciabili, erano assegni misti, e quindi volevamo utilizzare a titolo di riscatto, ci dai la metà dei soldi del valore degli assegni e ti diamo gli assegni».

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Una 45 automatica per mettere paura ai dipendenti

La rivendita si trovava all’interno di un capannone e «Silvano Mazzeo ci aveva avvertito che sopra una scala praticamente c’era questo capannone e sopra c’erano gli uffici. Una volta entrati negli uffici, non mi ricordo se la prima o la seconda stanza, comunque là vicino c’era la cassaforte in un mobile, dove teneva tutti i soldi, e quindi ci aveva avvertito dove tenevano i soldi questi qua del capannone, così è stato. Mi sono recato, sono andato là dentro il capannone, perché dentro il capannone ci sono arrivato proprio con la moto, non mi sono messo a parcheggiare fuori, sono arrivato proprio dentro con la moto, scendiamo io e Angelo David, Angelo David gli aveva spiegato dove erano i soldi, e io con una 45 automatica ho messo paura a tutti i dipendenti per non avere nessuna reazione, prendiamo i sacchi, prendiamo il sacco con i soldi e ce ne andiamo e ritorniamo di nuovo alla loggia, che sarebbe la campagna di Piscopio, dove, se non erro, era presente Francesco Scrugli, Rosario Battaglia, Rosario Fiorillo, Silvano Mazzeo, non mi ricordo se c’era pure Linuccio Idà, che sarebbe il cognato di Bruno Emanuele».

Il bottino, ricorda il collaboratore, venne ripartito tra lo stesso Moscato, Rosario Battaglia, Angelo David, Silvano Mazzeo, Franco La Bella, Rosario Fiorillo e Francesco Scrugli.

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Armi per l’omicidio di Pantaleone Mancuso Scarpuni

Oltre a vendere droga ai Piscopisani e sostenerli nel corso di alcune rapine, Silvano Mazzeo avrebbe supportato la cosca anche nel corso della faida ingaggiata contro la cosca Mancuso, capeggiata, nella prima decade degli anni 2000, da Pantaleone Mancuso detto Scarpuni.
«Signor Moscato, un ultimo aspetto, lei ricorda oltre alla fornitura di droga se lei o componenti del suo gruppo vi siete rivolti a Mazzeo Silvano per qualche altra ragione?», chiede il pm Frustaci.
«Per l’omicidio di Pantaleone Mancuso – risponde Moscato –, mi sembra che è stato Francesco Scrugli o Rosario Battaglia, che lui ci doveva fornire delle armi o darci una mano per un appostamento però lui si era messo a disposizione, sì».

Secondo quanto riporta Raffaele Moscato, all’epoca Francesco Scrugli (poi assassinato nel 2012) e Rosario Battaglia avrebbero voluto testare la fedeltà di Mazzeo chiedendogli di fornire loro dei «fucili e sostegno per uccidere a Pantaleone Mancuso», un uomo che «in quel momento era il capo dell’ala militare della famiglia Mancuso in guerra con noi, in contrasto con noi. I Piscopisani erano in desiderio fortissimo di ucciderlo a tutti i costi». Silvano Mazzeo, consapevole dell’uso di quelle armi, «si è messo a disposizione».

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