Ecco chi era Totò Bellocco, dal clan di Rosarno alla curva nord dell’Inter: ‘ndrangheta e ultras binomio criminale
Il giovane rampollo dell’omonima famiglia calabrese ammazzato alla periferia di Milano aveva scontato una pena a nove anni di reclusione per associazione mafiosa
Da Rosarno a Bologna e poi a Milano passando per la curva nord di San Siro dopo avere finito di scontare una condanna per associazione mafiosa a nove anni di reclusione: si è fermato su una Smart alla periferia del capoluogo lombardo il viaggio di Totò Bellocco, rampollo del clan calabrese ammazzato durante uno scontro armato dal suo ex sodale tra le fila dei tifosi dell’Inter Andrea Beretta, considerato il capo del ramo “militare” degli ultras nerazzurri. Un omicidio clamoroso, che riporta sotto i riflettori le inconfessabili connessioni tra il crimine organizzato e (parte) del mondo ultras e che, come era successo nella curva della Juventus, sottolinea l’interesse per le consorterie di ‘ndrangheta ad infiltrare anche il dorato mondo del pallone. O almeno quello che tutte le domeniche varca i tornelli degli stadi per raggiungere il cuore del tifo.
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Figlio di Giulio, morto al 41 bis nel carcere di Opera nel gennaio scorso poco prima di avere finito di scontare una pena a 13 anni di reclusione arrivata con l’indagine “Tramonto”, e nipote dello storico capo bastone Umberto, il giovane Antonio “Totò” Bellocco era sbarcato a Milano da poco più di un anno in rappresentanza del clan, fortemente radicato in Lombardia.
Era lui, dicono le carte dell’operazione della distrettuale antimafia dello Stretto “Vento del nord”, che si occupava di fornire «un costante contributo per la vita dell’associazione in occasione dei colloqui con la madre Aurora Spanò, la aggiornava sugli avvenimenti più recenti relativi a dinamiche d’interesse del sodalizio, le comunicava messaggi e informazioni degli altri affiliati e forniva un contributo rilevante nella consumazione di alcuni reati e, più in generale, si metteva a completa disposizione degli interessi della cosca». Giovane ma già piuttosto influente al momento dell’arresto, Totò Bellocco era finito assieme a buona parte della sua famiglia, nella rete tesa dagli investigatori di Reggio e di Bologna nell’ambito di un’operazione che portò a oltre cento anni complessivi di reclusione. «'Ndi levamu tutti pari pari, anche le femmine, Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro. Sennò non è di nessuno»: così diceva intercettato dagli inquirenti uno degli imputati dell’indagine Vento del nord che dimostrò come lo storico casato di ‘ndrangheta, che con il clan dei Pesce governa gli affari criminali della cittadina tirrenica, avesse piantato piedi (e affari) anche nel nord del paese, colonizzando prima Bologna e poi Milano.
Ed è a Milano che, ipotizzano gli inquirenti, il giovane Bellocco aveva messo radici sviluppando una propensione quasi immediata verso la curva nord dell’Inter e i suoi interessi poco chiari. Tante le occasioni in cui l’esponente dei Bellocco si sarebbe fatto vedere assieme ai capi di una curva già finita nella bufera un paio di anni fa in seguito all’omicidio dello storico capo ultras, Vittorio Baiocchi giustiziato nel 2022 davanti alla sua abitazione. Bellocco avrebbe in poco tempo scalato le gerarchie del tifo organizzato nerazzurro, riuscendo a sedere assieme a quelli che tirano le fila tra gli ultras. Una scalata che potrebbe essere legata agli interessi criminali legati al mondo ultras (bagarinaggio in testa) e che, come nel caso di Fabrizio Piscitelli alias Diabolilk nella curva nord della Lazio, potrebbe nascondere giri legati al traffico di sostanze stupefacenti. Una scalata che sembrava inarrestabile e che invece si è interrotta sotto i colpi di un altro capo ultras a cui lo stesso Bellocco aveva sparato poco prima.