Ventitré anni fa, l’attacco allo Stato. Indagini vicine ad una svolta?

Il 18 gennaio è stato celebrato l’anniversario dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, uccisi a Scilla. Due condanne definitive non bastano a raccontare tutta la verità. Dietro il delitto c’è la strategia del terrore di Cosa Nostra che si lega alla Calabria
di Consolato Minniti
21 gennaio 2017
18:23

Il 18 gennaio di ventitré anni fa, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò viaggiano a bordo di un auto. Incrociano una pattuglia di carabinieri all’altezza dello svincolo di Scilla, sull’autostrada A3. Sull’Alfetta scura ci sono gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Villani e Calabrò sanno già ciò che devono fare. Aprono il fuoco come due forsennati e sparano all’impazzata all’indirizzo dei due militari che muoiono senza alcuna possibilità di reazione. L’auto nera, crivellata di colpi e i cadaveri sanguinanti dei due carabinieri restano immagini vivide di un massacro che ancora oggi non conosce una verità piena, nonostante due condanne definitive per gli esecutori materiali.

 


Perché il 18 gennaio del 1994 è qualcosa più che l’anniversario di un agguato. È una data che fa rima con strage, terrore. Mafia. È una data che segna un cambio di passo della ‘ndrangheta nel suo rapportarsi con Cosa Nostra.

 

È ormai inutile nascondersi dietro le motivazioni di una sentenza passata in giudicato e certamente genuina per quelli che erano gli elementi all’epoca in possesso dei giudici. Perché oggi si è in grado di compiere un salto notevole in avanti. Spingersi oltre quei confini segnati da una ricostruzione parziale, per giungere al livello più alto: quello dei mandanti.

 

L’omicidio degli appuntati Fava e Garofalo fu un atto di terrorismo. Di strategia stragista pensata da Cosa Nostra e avallata dalla ‘ndrangheta.

 

La telefonata poco dopo il delitto. Andando a rileggere ciò che riportano le cronache dell’epoca, non sfugge come, poche ore dopo il duplice omicidio, qualcuno telefona all’hotel Palace di Reggio Calabria, all’epoca sede del comando intermedio di rappresentanza dei carabinieri. La voce anonima dice testualmente: «Questo non è che l’inizio di una strategia del terrore». Si pensa ad un mitomane, uno che pensa di creare allarmismo nell’ambiente dell’Arma già fortemente provato dalla perdita dei due militari. Invece, oggi, alla luce di tutto ciò di cui siamo a conoscenza, possiamo affermare, senza rischio di smentita, che quella telefonata è davvero bene informata.

 

Storia di un killer pentito. C’è un giovane che, da febbraio a maggio del 1994, sa che le autorità stanno arrivando alla sua identificazione. È cosciente che quelle multiple azioni delittuose contro i carabinieri (non solo Scilla, ma anche altri episodi di tentativi di omicidio) non possono restare impunite. Così, quando lo arrestano, Giuseppe Calabrò inizia subito a collaborare con la giustizia: «Abbiamo sparato ai carabinieri – spiega – perché temevamo di essere fermati e quindi scoperti con il carico d’armi nascosto nel bagagliaio dell’auto». È un fiume in piena, Calabrò. Parlando con i magistrati, rivela loro che lo stesso commando aveva sparato qualche giorno dopo, sempre contro una gazzella dei carabinieri. E così era pure avvenuto mesi prima, nel dicembre 1993. Insomma, tutto era riconducibile ad un carico di armi da utilizzare per eliminare un esponente della cosca avversaria. Ma la tesi del pentito non fu creduta dai giudici. Calabrò, infatti, aveva indicato due complici poi assolti, nonostante la richiesta di condanna dei pubblici ministeri. Accuse poi ritrattate dallo stesso Calabrò, che si auto accusò coinvolgendo anche l’attuale collaboratore di giustizia, Consolato Villani.

 

Omicidio Fava-Garofalo, la rivelazione di Calabrò: i mandanti? «Carne mia…» 

 

Quelle collaborazioni a cascata. Proprio Villani, nell’ottobre del 2010, a poco tempo dalla notifica della condanna definitiva per quanto avvenuto nel 1994, decide di pentirsi. Lo fa andando direttamente alla Direzione nazionale antimafia. Le sue parole sconquassano quelli che sembrano equilibri ormai consolidati. Anche perché dopo la sua scelta, arriva quello di un altro collaboratore di giustizia assai controverso: Nino Lo Giudice. E tutti sappiamo la portata del suo dichiarato.

 

Tornando a Villani, rimane impresso quanto lo stesso racconta al pm Giuseppe Lombardo, nel corso del processo “Meta”: «Al termine della seconda guerra di ‘ndrangheta, la cosca Latella-Ficara vedeva nei miei familiari un obiettivo per far loro un torto. Io ero minorenne ma mi sono reso conto di tutto questo, che sia Salvatore Lo Giudice che Giuseppe Lo Giudice erano morti per mano di quello schieramento, sentivo un odio profondo nei confronti di quelle persone. C’era pure un giovane del luogo, il cui padre aveva subito dei torti per lo sbancamento di un terreno, lo avevano anche picchiato. Mi unisco assieme a Giuseppe Calabrò, con l’obiettivo di recuperare delle armi e poter uccidere Vincenzo Ficara. Una volta prese le armi i due carabinieri cercano di controllarci e Calabrò li spara con l’M12 che aveva in auto». Cosa c’entra Villani con i Lo Giudice? È fatto notorio che siano parenti, visto che la mamma di Consolato Villani di cognome fa Lo Giudice. E lui, da sempre, ha una particolare vicinanza con la famiglia mafiosa un tempo egemone sul quartiere di Santa Caterina. E quando il pm Lombardo gli domanda se quell’azione contro i carabinieri è programmata, Villani non ha dubbi: «Sì, l’avevamo programmata, ma non posso rispondere su questo punto». Risposta ovvio, diremmo scontata. Perché Consolato Villani sa benissimo che quel delitto nasconde molto altro. Anche perché ci sono diversi elementi che non quadrano.

 

Le anomalie. Intanto perché Villani dice di aver programmato un attacco contro i carabinieri, se è vera la teoria secondo cui questi ci andarono di mezzo solo per un controllo fortuito? Ed ancora: guardando le foto dell’epoca si comprende benissimo come i due militari siano stati colti di sorpresa, senza aver avuto nemmeno il tempo di reagire. Erano entrambi dentro l’Alfetta scura. Dunque, l’azione era stata già programmata. I due carabinieri, quella sera, dovevano morire.

 

Irrompe il pentito siciliano, Gaspare Spatuzza. Il 5 ottobre 2012, durante il processo Mori, Gaspare Spatuzza, pentito siciliano ritenuto del tutto credibile dai magistrati tanto da far riscrivere pezzi di storia come la strage di Capaci e via D’Amelio, parla del suo incontro con il boss Giuseppe Graviano nel gennaio 1994: «Graviano mi disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie alla serietà di certe persone come Berlusconi e Dell'Utri». E aggiunge che l’attentato all’Olimpico, contro i carabinieri, doveva essere il colpo di grazia, perché «i calabresi si sono già mossi». Facciamo due calcoli: siamo nel gennaio 1994, i calabresi si sono già mossi e l’obiettivo sono i carabinieri. Di chi parla Spatuzza? Di Fava e Garofalo, ovviamente. Ed ecco allora perché Villani sa che non può andare avanti nel suo racconto. O almeno non può farlo in pubblica udienza.

 

La catena degli agguati: «È eversione mafiosa». Ma ci sono anche altri elementi che fanno pensare al duplice omicidio di Scilla come qualcosa che fa parte di una strategia più complessa. Agli inizi del febbraio 1994, nel quartiere Saracinello, vengono presi di mira altri due militari. Siamo a sole due settimane di distanza dalla morte di Fava e Garofalo. Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra viaggiano sulla Ss 106 a bordo di un’Alfa 75. All’improvviso contro di loro si scatena una tempesta di fuoco. Riescono a salvarsi per miracolo, riportando comunque gravissime ferite. L’allora capo della Criminalpol regionale, Arturo De Felice, non nasconde la sua preoccupazione e fa una dichiarazione che – da sola – vale a comprendere come gli investigatori di razza dell’epoca avessero capito tutto: «Reggio si sta confermando la capitale dell’eversione mafiosa». Sì, avete capito bene: eversione mafiosa. Come definire meglio una strategia stragista se non atto eversivo? De Felice intuisce molto di ciò che poi si scoprirà.

 

I punti in comune fra i due attentati. Andando ad analizzare le cronache dell’epoca, si scopre come i due fatti – Scilla e Saracinello – vengano bollati da Pantaleone Sergi, su Repubblica, come azioni fotocopia. Intuizione corretta. E vediamo perché. Intanto in entrambi i fatti di sangue viene utilizzata una mitraglietta M-12, ritrovata, dopo il pentimento di Calabrò, nel greto di un torrente. E poi i luoghi: è vero, Scilla nulla c’entra con Saracinello. Ma gli autori sì. Perché se è vero che Calabrò e Villani compiono il duplice omicidio “in trasferta”, è altrettanto vero che Saracinello è esattamente il luogo nel quale entrambi vivono con le rispettive famiglie. Sia Calabrò che Villani, infatti, risiedono a cavallo fra Saracinello e Ravagnese.

 

La famiglia Calabrò nel vortice. A pochi mesi dall’agguato contro Musicò e Serra, le indagini arrivano ad una svolta. Ecco cosa racconta Sergi su Repubblica, il 5 maggio 1994. Sono passaggi illuminanti: «Le puntate nella zona da parte dei carabinieri, guidati dal maggiore Sergio Raffa, e della polizia diventano assillanti. Viene trovato un arsenale nascosto, viene trovata droga in quantità, viene trovata l' automobile, una Regata, usata nel primo agguato. I carabinieri, finalmente, arrivano al super teste e da lui al fratello più grande, Giuseppe Calabrò, uno dei fermati di ieri che a sua volta collabora con gli investigatori. Il giovane Calabrò parla, dice di avere riconosciuto Pietro Lo Giudice e un suo nipote minorenne (figlio di Giuseppe Villani), mentre, armi in pugno, fuggivano dal luogo dell'ultimo agguato. Le indagini si infittiscono, diventano frenetiche. Qualcuno viene a sapere che il giovane Calabrò sta parlando e si preoccupa di minarne la credibilità. Tramite un avvocato (è una storia parallela che potrebbe avere sviluppi giudiziari imminenti) familiari e “amici” contattano due psichiatri di fama i quali, dietro compenso, certificano che il giovane è un pazzo, già in cura da loro. Ma gli inquirenti "orecchiano" e registrano. E le perizie richieste dalla Procura, oltretutto, danno un esito completamente opposto: il giovane “collaborante” è sano e lucido. E a suggello delle sue dichiarazioni arrivano le confessioni del fratello Giuseppe. «Lo Giudice e il nipote frequentano le stesse persone frequentate da mio fratello Giuseppe», dice il super teste. E Giuseppe, quando i carabinieri lo bloccano, dopo un misterioso avvertimento a fuoco contro la casa di un maresciallo dell'Arma in pensione, messo alle strette vuota il sacco». Inizia da qui il percorso – tortuoso – di collaborazione di Giuseppe Calabrò. Ma è rileggendo queste righe che si capisce come sia tutta la famiglia Calabrò ad essere messa in mezzo al vortice di fatti. 

 

La scomparsa di Francesco, i timori di Giuseppe e la smentita. Il 9 ottobre del 2006, Francesco – il fratello minore di Giuseppe Calabrò – scompare nel nulla. Il suo caso approda ben presto a “Chi l’ha visto?”. Arrivano anche diverse segnalazioni, addirittura della sua auto, in quel di Bologna o a Castelfranco Emilia. Ma di quel giovane non se ne sa più niente. Fino all’aprile 2013, quando, al porto di Reggio Calabria, viene ritrovata l’autovettura di Calabrò. È in fondo al mare, con tanta sabbia a testimoniare il tempo trascorso in acqua. Dentro, ci sono i resti del giovane. Solo frammenti ossei, ma sufficienti a certificare che lui è morto proprio lì. Nulla si sa, al momento, se si tratti di suicidio o omicidio. Ma che si tratti di qualcosa di grosso, lo si capisce dalla presenza dell’allora procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Michele Prestipino.

 

Ci sono soltanto le parole del pentito Antonino Lo Giudice, il quale riferisce che Villani gli raccontò di essere stato l’autore del delitto. Secondo Lo Giudice, infatti, vi fu una colluttazione tra i due, tanto da portare Villani a sferrare un colpo a Calabrò e farlo poi inabissare con l’auto per nascondere tutto quanto. Ricostruzione tutta da verificare, ovviamente, così come da verificare è la circostanza emersa dai colloqui investigativi di Giuseppe Calabrò con il pm Gianfranco Donadio. Il pm racconta che Calabrò gli raccontò di suo fratello Francesco, facendo riferimento ad una scomparsa e conseguente omicidio al fine di tappargli la bocca. Parole che lo stesso Giuseppe Calabrò ha poi smentito pubblicamente.

 

C’è un nesso con Marrapodi e il suo strano suicidio? Potrebbe essere solo una coincidenza, certo, ma è importante rimarcare come anche il notaio Pietro Marrapodi, uomo forte della massoneria deviata di Reggio Calabria, fa riferimento all’azione di fuoco contro i carabinieri.

 

Marrapodi, dopo anni passati all’interno del sistema massonico-mafioso reggino, decide di vuotare il sacco. I suoi sono segreti che pesano tantissimo e che rischiano di minare dalle fondamenta l’intero establishment della città. Anche perché affondano in tutte quelle dinamiche riguardanti i legami fra ‘ndrangheta ed eversione nera. Muore, suicida, in circostanze poco chiare. Impiccato, dicono le note ufficiali, ma i dubbi che sia stata davvero lui a volerla fare finita, sono tanti. Tantissimi. Sta di fatto che il 15 febbraio del 1994, quindi dopo la morte di Fava e Garofalo e l’agguato a Musicò e Serra, Marrapodi telefona all’allora ministro della Giustizia, Vincenzo Nardi. Le sue parole sono eloquenti: «Perché, intanto, ci sono state tante cose nuove, qui insomma hanno cercato praticamente di darmi dei segnali fisici pericolosissimi, come le ho detto, no? Adesso pure la faccenda di questi carabinieri, che hanno sparato, è collegata direttamente a quei due che uscivano da qui e dovevano passare da quel posto a quell’ora. Cioè ci sono cose di una gravità inaudita, e quindi io ho pensato di svolgere il lavoro in quel modo, signor presidente: le faccio un primo capitolo, in cui le illustro la realtà in cui è inserito questo ventennio… tutte queste serie di denunce analitiche che sembrano non collegate. Un primo capitolo che si può leggere o non leggere o si fa dopo per consultazione, giusto?». Denunce analitiche che sembrano non collegate, dice Marrapodi. Che aggiunge una frase che fa comprendere come tema per la sua vita: «Io ho retto e sto reggendo, però è pazzesco, da un momento all’altro ci possono, mi possono ammazzare…». Parole profetiche.

 

Presto una svolta? Interrogativo d’obbligo: c’è forse qualcosa che collega le denunce di Marrapodi alla strategia contro i carabinieri? Forse il notaio era a conoscenza di particolari, riguardanti la stagione della tensione, che mette in correlazione tutto quanto? Oggi non siamo ancora in grado di poterlo dire. Quel che è certo è che il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, proprio pochi giorni fa ha dichiarato di sperare di poter dare presto una risposta completa sull’omicidio Fava-Garofalo. Se una persona così equilibrata come Cafiero si spinge fino a qui, allora c’è da credere che probabilmente le indagini siano vicine ad una svolta. E non è escluso che in questa risposta possa esserci anche qualcosa che riguarda la morte del notaio Pietro Marrapodi. Noi – sulla base degli atti che abbiamo avuto modo di esaminare nel corso degli anni – crediamo che il livello più alto possa essere cercato non troppo lontano da dove si è già scavato. E poi, arrivare ai passaggi successivi che conducono sino in Sicilia. Lì, dove si racconta che nacque l’idea di un attacco frontale allo Stato. Una guerra che doveva condurre le istituzioni a piegarsi al volere non della mafia e neppure della ‘ndrangheta, ma di un complesso sistema criminale, fatto anche di pezzi deviati di Stato, che miravano ad un golpe strisciante ed irrituale, ma di certo più efficace di altri, minuziosamente studiati e falliti.

 

Consolato Minniti

 

Giornalista
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