‘Ndrangheta, con il processo Aemilia si assiste all'ammodernamento della mafia

Per definire il rapporto tra la cellula emiliana di Ndrangheta e la casa madre cutrese, il giudice Francesca Zavaglia usa il termine “complementarietà” e le descrive come due “autonome realtà che agiscono in convergenza di fini”.
di Redazione
12 ottobre 2016
14:49

 "Nell'indagine Aemilia si assiste alla rottura degli argini" da parte della criminalità calabrese in Emilia dove "la congrega è vista entrare in contatto con il ceto artigianale e imprenditoriale reggiano, secondo una strategia di infiltrazione che muove spesso dall'attività di recupero di crediti inesigibili per arrivare a vere e proprie attività predatorie di complessi produttivi fino a cercare punti di contatto e di rappresentanza mediatico-istituzionale".    E' questo, secondo il gup Francesca Zavaglia, il salto di qualità dell'inchiesta sulla 'Ndrangheta della Dda di Bologna.

Lo si legge in uno dei passaggi chiave delle 1390 pagine della sentenza del processo concluso ad aprile con 58 condanne in abbreviato, 17 patteggiamenti, 12 assoluzioni e un proscioglimento per prescrizione. Dato caratterizzante è proprio "la fuoriuscita dai confini di una microsocietà calabrese insediata in Emilia, all'interno della quale si giocava quasi del tutto la partita, sia quanto agli oppressori che alle vittime". 


 

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Una 'Ndrangheta 'moderna' e 'mimetizzata'. Sono questi due aggettivi con cui il gup Zavaglia ha descritto la presenza della criminalità organizzata calabrese in Emilia-Romagna, nelle motivazioni della sentenza del processo in abbreviato di 'Aemilia'.

 

Il tratto peculiare emerso dal processo è "la fisionomia di una struttura criminale moderna, che affianca le caratteristiche della classica tradizione 'ndranghetistica calabrese a modalità operative agili e funzionali a penetrare nel profondo della realtà socioeconomica emiliana". Con una "dimensione prettamente affaristica nell'agire del sodalizio emiliano finalizzata, da un canto, al reimpiego dei flussi di denaro provenienti dalla cosca calabrese  e dall'altro alla produzione di ricchezza locale tramite condotte predatorie, vieppiù agevolate dalla grave congiuntura economica del periodo, così da assecondare un  processo di espansione, di vera e propria conquista, fortemente inquinante e soffocante il vitale tessuto locale".   

 

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Presupposto dell'azione, per il giudice è la disponibilità di imprese, non solo schermo di attività illecita, ma realmente operanti, "confondendosi lavori legittimi con condotte illecite, altre volte i lavori legittimi involvendo, a fronte di ostacoli, in azioni illegali. Casi, questi ultimi, nei quali la 'mimetizzata' 'ndrangheta emiliana mostra la sua essenza". "La facilità di azione, l'agevole reperimento di anelli deboli attratti dai guadagni, dalle lusinghe nonché talvolta dal 'fascino' del potere malavitoso e l'ingente quantità di ricchezza illecitamente prodotta e distribuita sono fattori che hanno contribuito a distendere le tensioni che sempre accompagnano le lotte di potere e a sbiadire il volto violento (pur in passato esistito anche in Emilia) dell'associazione ndranghetistica qui tratteggiata".

 

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Ma non solo. Per definire il rapporto tra la 'cellula emiliana' di Ndrangheta e la casa madre cutrese, il giudice Francesca Zavaglia usa il termine "complementarietà" e le descrive come due "autonome realtà che agiscono in convergenza di fini". Nella sentenza del processo in rito abbreviato il gup scrive che "l'organizzazione emiliana, ben radicata nel territorio e in continuo contatto con la cosca di Cutro, ha dato prova di possedere le caratteristiche e di manifestarsi nei delitti in modo analogo alle consorterie operanti in terra d'origine e di godere di autonomia operativa e decisionale". Nello stesso tempo "la casa madre ha dimostrato di 'utilizzare' la cosca locale, attraverso esponenti in particolar modo deputati a fungere da trait d'union, per la sinergica conduzione di alcuni 'affari' nell'ottica della massimizzazione del profitto e del reciproco consolidamento".

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