La manifestazione

La boxe popolare sale in cattedra all’Unical: «Non vogliamo togliere i ragazzi dalla strada, vogliamo rimetterceli»

VIDEO | Con un dibattito su inclusione e rispetto dedicato a chi studia per diventare educatore è partita all'Università della Calabria la due giorni di "Non solo pugni" che raccoglie diverse realtà sotto l'insegna dello sport come palestra di vita

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di Mariassunta Veneziano
6 ottobre 2024
14:20

Università della Calabria, cubo 19B, aula Solano. La descrizione è tutta nelle parole del preside Massimo Ciglio: «Qua dentro vedo bellezza. Tutti intenti a prendere appunti, nessuno con lo smartphone». Sguardi attenti, penne in mano, l’inchiostro che sui fogli lascia traccia di quest’ultima mattinata tra i banchi prima del meritato weekend. Ma la lezione non è come tutte le altre e in realtà non è neanche una lezione. È incontro tra persone, condivisione di esperienze, testimonianza di impegno. È un tassello, per dirla con le parole di un altro protagonista della giornata, di quel «percorso di coscientizzazione» al quale scuola e università devono lavorare assieme. E che passa attraverso lo sport. Giancarlo Costabile nell’ateneo di Arcavacata insegna Pedagogia dell’Antimafia. Tocca a lui, davanti alle sue studentesse e ai suoi studenti, dare il via alla quarta edizione di “Non solo pugni”, la manifestazione organizzata dalla Boxe Popolare di Cosenza.

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«Lo sport vero aggrega, costruisce una cultura non violenta dell’inclusione e del rispetto e chi fa questo lavoro merita pieno, pubblico, concreto sostegno». Seduti accanto al docente, a parlare ai ragazzi, ci sono Gianfranco Tallarico e Francesco Oliva, che «questo lavoro» lo fanno nella palestra dello stadio San Vito-Marulla. E poi i rappresentanti della Pugilistica Domino di Milano, Giuseppe Caputo e Debora Rota, arrivati qui con i loro atleti guidati da quel filo rosso che lega ormai da più anni Calabria e Lombardia. E ancora Vittoria Morrone, psicologa e attivista del collettivo La Base e di Fem.In. E Massimo Ciglio, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo Spirito Santo.


Tante le realtà unite in questa due giorni di incontri. Prima fuori dal ring, poi sul ring. Per dare prova, con le parole e con i pugni, di come il pugilato possa essere veicolo di inclusione e rispetto.

È inclusione il pugilato, perché è uno sport per tutti. Non contano sesso, razza ed estrazione sociale ma non conta neanche il fisico. «Ci sono alcune discipline che richiedono caratteristiche precise, la boxe si può praticare a prescindere dalla statura e dal peso», sottolinea Tallarico.

Che poi aggiunge: «La palestra è un luogo in cui ci si allena, ma anche un luogo in cui si apprendono modelli sociali sani». La boxe contro le devianze. «Ero anch’io un ragazzo da educare – racconta in aula – e grazie al pugilato ho trovato il modo di elaborare e convogliare le mie pulsioni. Questo è lo sport dei dannati, di chi ha i demoni in testa, perché serve a dominarli».

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Tra i banchi i boxeur della palestra cosentina sfoggiano le magliette con lo slogan “Non un passo indietro”. «Significa caparbietà e voglia di esserci», spiega Oliva, che è presidente dell’associazione sportiva Boxe Popolare Cosenza. Esserci tirando pugni.

«Cominciate a tirare pugni», incita Ciglio. «Non si può pensare che la vita sia solo adeguarsi a bisogni indotti. Bisogna prenderla a pugni. I diritti non sono elargizioni, sono il frutto di pugni tirati a una società che voleva sudditi». Nella scuola dello Spirito Santo, a Cosenza vecchia, il progetto “Boxando s’impara” sta aiutando i ragazzi del quartiere «a diventare sé stessi»: «Il pugilato non solo dà loro delle regole, ma li aiuta a darsi delle regole, ne sviluppa l’autonomia. E quando capiscono che c’è un modo diverso di stare insieme questo ha ricadute straordinarie sulla didattica».

Vittoria Morrone la vita l’ha già presa a pugni da tempo con le battaglie per il diritto alla casa, per il lavoro, per la parità di genere. Da un po’ ha anche iniziato a dare pugni in palestra. «Lo faccio male, ma mi piace», si schermisce. Quella della Boxe Popolare di Cosenza «è una palestra per le emozioni», afferma. L’ansia, la rabbia, il senso di fallimento. «Nella nostra società il fallimento è vissuto come annullamento della persona, sul ring si impara che il fallimento fa parte della persona», dice. E il pugilato diventa, in questo senso, «strumento per uscire dal ghetto: fisico – come può essere una periferia – ma anche mentale».

Lo sanno bene quelli della Pugilistica Domino di Milano, che in un quartiere difficile come Gratosoglio hanno dato vita a una realtà che da vent’anni affianca l’impegno sociale a quello sportivo. «Il tema dell’inclusione l’ho vissuto sulla mia pelle perché sono figlio di meridionali», racconta Giuseppe Caputo, il cui cognome rivela le origini calabresi. È il fondatore di una palestra che dal 2004 è in prima linea in un pezzo di città tutto palazzoni e niente servizi. «Lo sport è il contenitore che ci consente di offrire al territorio quello che le istituzioni non riescono a dare».

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«La nostra è una realtà che vive sul territorio e con il territorio», gli fa eco Debora Rota. Le slide scorrono sullo schermo alle sue spalle. Raccontano dei tanti significati che un pugno può avere. E di come un pugno sul ring racchiuda lealtà, spirito di sacrificio, autocontrollo, perseveranza, rispetto. È lotta, ma in un contesto di regole e valori che possono contaminare il mondo fuori dalla palestra.

«Io non voglio togliere i ragazzi dalla strada, voglio rimetterceli», dice Caputo. Ma con regole e valori, appunto.

Educare all’inclusione e al rispetto facendo a pugni si può? «È una contraddizione – dice Rota – ma contraddire vuol dire letteralmente resistere, opporre un ostacolo: noi dobbiamo resistere alla diseducazione».  

Le penne scorrono sui fogli. Ogni tanto si fermano per lasciare le mani libere di applaudire. Gli sguardi rimangono attenti, fino alla fine.

Le ultime parole, così come le prime, sono affidate a Giancarlo Costabile. E sono parole che racchiudono il senso dell’incontro e insieme lasciano un segno da portare fuori dall’aula: «Sudditanza e dipendenza: dalla demolizione di questi concetti passa la nostra libertà».

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