«Mi chiamo Antonino P. ho 76 anni e sto morendo in un letto di ospedale»

Il coronavirus sta decimando una generazione, sta falciando i nostri nonni, la nostra memoria. In questo racconto di fantasia gli ultimi momenti di un uomo che non deve affrontare solo la malattia ma anche l’oblio della società

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di Alessandro Stella
9 aprile 2020
07:38

Mi chiamo Antonino P., ho 76 anni e in questo momento sono in un letto d’ospedale, intubato.

 


Loro non lo dicono, ma uno lo capisce quando è il momento. È una ventata gelida che senti e non senti, però la riconosci subito, non hai dubbi.

 

Per loro sono l’ennesima vittima di un virus venuto dalla Cina. Covid-19, l’hanno chiamato, come se covasse per esplodere improvviso e spargere schegge di morte ovunque.

 

Respiro a fatica, l’infermiera viene spesso a controllarmi, ha gli occhi stanchi, ma si sforza di apparire serena. Il medico, invece, è sempre sudato, ha goccioline sulla fronte come una corona, e non capisco se è per i turni massacranti o per la paura che cerca di nascondere.

 

La paura è più subdola del virus. E i medici sono cristiani come noi, mica eroi. È facile dipingerli come macchine, mostrarli come robot che vanno incontro alla morte e non temono niente, immaginarli soldati pronti al martirio. Ci lava la coscienza. Macché. Hanno paura: si tocca, è densa. Passano le giornate avvolti nella paura. Hanno famiglie, figli, genitori che non vedono da settimane. E che non sanno se rivedranno.

 

Io, invece, sono solo. Carmela se n’è andata tre anni fa. Aveva il taglio delle labbra all’insù, volgevano sempre al sole, anche quando mi disse: «Grazie per aver rinnovato la promessa ogni giorno», e spense la luce.

 

Dicono che il virus colpisce tutti, è democratico. Così dicono. Io, però, vedo morire tanti vecchi. Non anziani. Vecchi. Ché “anziani” serve solo a indorare la pillola. Noi siamo “vecchi”. Io sono vecchio. E non sto morendo adesso, in questo letto d’ospedale. Sto morendo da anni. Da quando quelli che dicono hanno deciso che non siamo più utili perché non possiamo produrre. Ché ormai il valore delle persone si misura solo in base a quello che producono materialmente. Nessun merito al vissuto, allo spirito, all’anima di chi ha visto migliaia di albe per tenere in piedi un Paese. Largo ai giovani, dicono. E lo dicevo pure io. Ma poi sono passato dall’altra parte. Perché certe cose non le capisci se non le vivi, soprattutto quando non ti interessa capirle.

 

Ché poi non è vero che non serviamo, bastano i soldi che spendiamo per le medicine. Hanno nomi che manco mi ricordo, e una mi lascia un saporaccio che pare olio di ricino. Ma il dottor Franzè dice che le devo pigliare perché ho il cuore come una carriola sgonfia. Così dice: una carriola sgonfia. Ma con questo trabiccolo a terra cammino da 23 anni, dal giorno dell’infarto. Franzè mi diceva che potevo arrivare pure al secolo, bastava rigonfiarla ogni tanto. Mo’ invece mi sa che non si gonfia più, nonostante ‘sto compressore che pompa aria da ore.

 

Le chiamano “patologie pregresse”. Lo dicono sempre al tiggì quando muore qualcuno in questi giorni, lo fanno per non allarmare la gente. È come un’etichetta appesa all’alluce in obitorio: «Anziano con patologie pregresse», che tradotto significa: «State tranquilli, sono vecchi e malati, prima o poi dovevano morire». Così dicono. E se ne fregano delle previsioni di Franzè.

 

Poi ci sono alcuni che dicono che siamo un peso e che i 400 euro di pensione che prendiamo dovrebbero darli ai giovani disoccupati. Pure questo dicono. E sembra che qualcuno li abbia ascoltati e abbia mandato il flagello per alzare la crescita zero. Questo non lo dicono, non è politicamente corretto. Ma lo pensano tutti.

 

Ecco, è arrivata di nuovo quella ventata. È più fredda di prima.

Mi chiamo Antonino P., ho 76 anni e sto morendo in un letto di ospedale.

 

Alessandro Stella

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