Marisa Manzini: dieci anni nel mirino, dieci anni di silenzi

“Stai zitta, tu”, dice il boss che in udienza si abbandona indisturbato ad una sequela di insulti. Stavolta il caso diventa anche mediatico e perfino la politica (a cominciare dal governatore) scende in campo. Quando si parlava però di agguati, lanciarazzi, tagli della scorta e attentati a mezzo carta bollata, tutti (o quasi) rimasero silenti
di Pietro Comito
14 ottobre 2016
18:56

Tutti silenti, quando il pentito ergastolano Gerardo D’Urzo - collegato in videoconferenza col Tribunale di Vibo Valentia da una località segreta - annunciò in pubblica udienza che i Mancuso avevano ordinato addirittura un lanciarazzi per fare saltare in aria Marisa Manzini.

 


Silenti, tenacemente silenti, ancora, quando un senatore piemontese, che la parola ’ndrangheta non sapeva neppure pronunciarla, presentò un’interrogazione ai ministri dell’Interno e della Giustizia contro quella donna magistrato che veniva accusata - malgrado avesse speso gran parte della sua carriera per fare arrestare e condannare i mafiosi - di essere addirittura una collusa, una toga in combutta col nemico. Andate, navigate nel selvaggio web, troverete ancora, e senza difficoltà, le prove di quell’infamia. Fu questo - forse - l’attentato più grave contro di lei, un attentato di quelli che ti ammazzano lasciandoti in vita. D’altronde - rivelò una volta un altro pentito, Franco Pino - la filosofia dei Mancuso non è quella dei Corleonesi: “Noi i magistrati non li ammazziamo - dicevano i boss del casato contro il quale Marisa Manzini lottava quotidianamente -. Noi o li compriamo o li delegittimiamo”. E basta poco, specie nell’era di internet e dei social, per insinuare il germe del sospetto e distruggere la credibilità (e talora la vita) di chiunque, figurarsi quella di un uomo o di una donna delle istituzioni. Una volta era la macchina del fango, oggi è qualcosa di ancor più mostruoso.

 

Il boss minaccia la pm Manzini in un'aula di tribunale

 

E ancora, tutti (o quasi) silenti, quando a Marisa Manzini provarono a tagliare la scorta. O quando furono sequestrati lampeggianti e armi al clan Bonavota che - s’ipotizzò immediatamente - sarebbero serviti per attentare alla vita della toga allora in servizio alla Dda di Catanzaro. Quando uscirono fuori le intercettazioni dei capibastone in carcere che esprimevano nei suoi confronti un odio ed un rancore viscerali.

 

Tutti (o quasi) silenti, poi, quando l’ex capo della Squadra mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento, svelò l’esistenza di un piano per uccidere Marisa Manzini e Giancarlo Bianchi, il giudice che firmò la prima sentenza di condanna emessa da un Tribunale collegiale contro i vertici della cosca Mancuso. Il presidente Bianchi, quello che, sempre in udienza, un bel po’ d’anni fa, urlò a Pantaleone Mancuso alias “Scarpuni” che l’osservava da una gabbia: “Mancuso, lei deve stare zitto! E deve stare pure seduto, altrimenti la faccio portare via”. E il boss si tacque. Il boss, lo stesso che, lunedì scorso – rivolgendosi proprio a Marisa Manzini – ha pronunciato quel “Stai zitta, tu”, prima di abbandonarsi ad insulti e contumelie nell’indifferenza generale dell’aula presieduta da un giovanissimo collegio.

 

Oliverio: «Le minacce alla Manzini dimostrano l’arroganza della mafia»

 

Silenti ieri, un po’ meno oggi. Perché, oggi più che ieri, il caso mediatico è montato come si deve e la solidarietà, in momenti come questi, è a buon mercato e costa solo un po’ di fiato. 

 

Oggi perfino il presidente della Regione, Mario Oliverio, esprime “solidarietà” all’attuale procuratore aggiunto di Cosenza. Sulla criminalità organizzata, dice il governatore: “Noi non solo la respingiamo, ma la combattiamo apertamente, con i fatti e gli atteggiamenti quotidiani, con la nostra attività di governo e al pm Manzini esprimiamo, pertanto, non solo la nostra solidarietà, ma la vicinanza piena nel segno di una comune azione, su campi diversi, per la legalità e contro le mafie”.

 

 

Ora, al di là delle belle parole, Oliverio vuole fare davvero qualcosa di concreto? Visto che la Regione (siamo alle precedenti legislature) era parte civile al maxiprocesso “Dinasty” contro i Mancuso ed ha ottenuto in via penale il diritto al risarcimento del danno da quantificarsi e liquidarsi in altra sede, non crede (sono trascorsi anni ormai) sia giunta finalmente l’ora di avviare le cause civili? E ancora, perché Oliverio non chiede ai suoi amici parlamentari di avviare una campagna politica affinché si concretizzino le riforme abbozzate da Nicola Gratteri? Perché non chiede agli stessi suoi amici deputati e senatori dem di firmare una serie d’interrogazioni ai ministri competenti, denunciando le scoperture degli organici che costringono magistrati come il pm antimafia Camillo Falvo, lo stesso che si occupa della ’ndrangheta vibonese, a sopportare un carico disumano? Scoperture che portano in una polveriera come Vibo Valentia, tra l’altro, toghe prive di esperienza, che si ritrovano a giudicare oggi i capi di una delle holding criminali più potenti su scala internazionale, i quali prendono la parola per dichiarazioni spontanee e fanno come gli pare. Perché non avviano, i suoi amici deputati e senatori dem, un tour nei Tribunali calabresi per vedere in che condizioni, anche strutturali, il personale lavora. E visto che dal Ministero hanno già rassicurato sull’incremento dei livelli di protezione per la dottoressa Manzini e di attenzione verso il distretto di Catanzaro, si resti vigili affinché le promesse divengano fatti.

 

Minacce in aula al pm Manzini, Nesci e Parentela: «Fanno paura le modalità dell'accaduto»

 

Presidente Oliverio, lo diciamo a lei che rappresenta una delle più importanti espressioni politico-istituzionali della nostra terra, e attraverso lei lo diciamo al resto della classe dirigente (dem e non solo) a cominciare quella parte che siede in Commissione antimafia: l’epoca dell’inutile solidarietà è finita. Fate qualcosa di concreto. Fate questo. E magari, proprio come vi suggerisce, Nicola Gratteri, così - tanto per dare una parvenza di serietà a quel che dovreste fare - iniziate col mettere qualcuno alla porta. 

Giornalista
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