Per diventare mamma perde il rene “nuovo” e torna in dialisi

INCHIESTA / Le storie di chi in Calabria deve confrontarsi con la difficile esperienza del trapianto di organi
di Enrico De Girolamo
19 ottobre 2017
13:11

Avere un figlio può costare un rene. E non è un modo di dire. È quanto accaduto a Maria Larosa, 38 anni, originaria di Laureana di Borrello, in provincia di Reggio, che a causa della gravidanza ha compromesso le funzioni dell’organo che aveva ricevuto in donazione e che finalmente l’aveva strappata alla durissima routine della dialisi.


Il trapianto

«Ma non sono pentita di essere rimasta incinta - spiega -. Il desiderio di avere un figlio era fortissimo e grazie al rene che mi fu donato sono riuscita a coronare questo sogno. Se avere il mio bambino ha significato dover tornare in dialisi, è un prezzo che pago senza rimpianti»
Affetta da insufficienza renale dall’età di 13 anni, a 18 comincia l’emodialisi, la procedura medica che consente la pulizia del sangue dalle impurità e dall’acqua in eccesso, ciò che, appunto, fanno i reni. Una terapia salvavita per chi è affetto da gravi forme di insufficienza renale, ma anche una condanna, perché le sedute di dialisi sono frequenti, lunghe e inevitabili. Quasi impossibile viaggiare, fare un lavoro con orari d’ufficio, avere una vita normale. Figurarsi avere un figlio. L’unica soluzione per uscire da questo loop esistenziale è il trapianto.
«Ero in lista d’attesa e a 22 anni si è presentata l’occasione - racconta la donna -. Ho fatto il trapianto e per 12 anni non ho più avuto bisogno di ricorrere all’emodialisi».



La terapia contro il rigetto

Maria Larosa comincia così la sua nuova vita. Come tutti i trapiantati assume molti farmaci contro il rigetto dell’organo ricevuto, immunosoppressivi che impediscono al suo corpo di identificare come “nemici” i tessuti del donatore. È il prezzo da pagare da parte di chi riceve un organo, anche se negli ultimi decenni sono stati fatti passi enormi in campo farmaceutico, con grande vantaggio per chi è costretto ad assumere con regolarità questi principi attivi. Nonostante i farmaci, però, comincia ad avere episodi di rigetto, con una serie di infezioni causate proprio dalla terapia immunosoppressiva. Sempre meglio, comunque, che tornare a essere attaccata ai macchinari per la dialisi.


La gravidanza: il sogno si avvera

La sua è una battaglia lunga e dodici anni sono tanti. Mette su famiglia e punta dritto al suo sogno: avere un figlio. Sa che la gravidanza può compromettere definitivamente gli esiti del trapianto, con il rischio di tornare al punto di partenza, ma il desiderio di diventare mamma è più forte di ogni altra considerazione. Così, tre anni fa, nasce Michele ma il rene che aveva ricevuto dodici anni prima non funziona più.
«Oggi sono nuovamente in dialisi e in lista d’attesa per un altro organo - spiega -, ma non sono pentita. Il primo trapianto mi ha consentito di avere il mio bambino e questa è la cosa che per me conta di più».

 

Di nuovo in lista d'attesa

Da tre anni aspetta la notizia di un rene compatibile, ma il calo delle donazioni in Calabria ha allungato molto i tempi di attesa.
«Il problema principale risiede sempre nella scarsa sensibilità che si registra sul tema delle donazioni - rimarca Maria -. I congiunti delle persone che purtroppo muoiono nelle sale di rianimazione dei nosocomi calabresi, quasi sempre negano il consenso all’espianto degli organi. Rifiuto per certi versi comprensibile, perché il nulla osta viene chiesto in momenti estremamente drammatici, di grande dolore personale per la perdita del proprio caro.

 

La soluzione sarebbe cambiare radicalmente la normativa italiana e adottare soluzioni come quella vigente in Spagna, dove il significato del consenso è invertito, per cui l’espianto è sempre permesso, tranne nei casi in cui il potenziale donatore abbia espressamente negato l’autorizzazione quando era in vita. In questo modo si salverebbero molte più vite e non si costringerebbero le famiglie a subire una pressione psicologica così gravosa».

 

Sensibilizzare l'opinione pubblica

Spesso, infatti, i congiunti dei pazienti di cui è stata dichiarata la morte cerebrale, credono erroneamente che dare il consenso significhi “staccare la spina”.
«Invece - continua -, non si rendono conto che immediatamente dopo il loro rifiuto il corpo viene portato in obitorio, anziché in sala operatoria per consentire l’espianto degli organi».


Concetti che, quando ne ha l’occasione, Maria cerca di spiegare soprattutto ai più giovani, partecipando attivamente alle campagne di sensibilizzazione promosse dal Centro regionale trapianti. «Incontrare i ragazzi delle ultime classi delle superiori è molto gratificante - spiega -, perché riscontriamo grande attenzione e in molti, quelli maggiorenni ovviamente, decidono di diventare donatori. È la prova che attraverso un’attività di informazione corretta e capillare, in Calabria è possibile invertire il trend e salvare molte più vite di quanto non accada oggi».

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