L’ANALISI | Guglielmelli: «L’Italia, la Calabria, il Partito democratico e il Congresso»

Il segretario provinciale Pd Cosenza: «Possiamo e dobbiamo tuttavia fare uno sforzo vero di riflessione sulle politiche che vogliamo offrire agli italiani e soprattutto dobbiamo discutere su come stare in questo nuovo mondo»
14 aprile 2017
17:58
Guglielmelli, Pd Cosenza
Guglielmelli, Pd Cosenza

«Siamo alle porte di un Congresso importante dopo una scissione dolorosa. Un Congresso fatto con regole strane in cui il dibattito rischia sempre di essere assorbito dall’ansia delle primarie, dalla ricerca del consenso esterno al partito. Le regole, tuttavia, sono queste e con queste regole, nella speranza che possano essere cambiate quanto prima, dobbiamo fare i conti. Possiamo e dobbiamo tuttavia fare uno sforzo vero di riflessione sulle politiche che vogliamo offrire agli italiani e soprattutto dobbiamo discutere su come stare in questo nuovo mondo.

 


Forse per la prima volta stiamo prendendo coscienza del ruolo fondamentale del contesto globale. Abbiamo pensato che le politiche nazionali potessero essere la risposta alla globalizzazione e viviamo tempi in cui le cosiddette forze sovraniste, di fronte alle contraddizioni economiche e sociali prodotte dalla globalizzazione, spingono sempre di più verso l’isolazionismo sia esso nazionale, etnico, di classe sociale. Tuttavia sappiamo che la descrizione degli effetti delle politiche liberiste globali è solo un esercizio inutile se non legato ad azioni e soprattutto politiche in grado di spostare l’asse dal capitalismo finanziario alle istanze sociali.

 

L’elefante di Milanovic ci spiega come la crisi dell’occidente è causata sostanzialmente da un impoverimento della classica classe media dei paesi OCSE a fronte di una riduzione della povertà per larghissimi strati della popolazione mondiale e un incremento del reddito dei “super-ricchi”. C’è dunque un effetto distributivo e un altro di concentrazione della ricchezza. La nostra politica dunque dovrebbe occuparsi di come riequilibrare l’elefante ed in particolare di come redistribuire la ricchezza in mano a pochi al nostro ceto medio uscito devastato dalla crisi e dalla sistemica ricomposizione dello scenario economico compiuto dalla globalizzazione. Da soli non ce la facciamo. Non siamo in grado di condizionare il quadro globale, non lo sono gli Stati Uniti, non lo sarà mai l’Italia. Questo circolo vizioso per cui si combatte la globalizzazione e l’esterno con la Nazione e l’interno, che potremmo definire la trappola dei sovranisti, in definitiva sta trascinando l’occidente in una deriva pericolosa per cui si continua ad essere vittima e nello stesso tempo si abdica ad esercitare il ruolo politico internazionale per frenare, correggere e un domani, forse, cambiare le regole dell’economia mondiale.

La prima risposta alla nostra riflessione, dunque, non può che essere: Europa. È quello il terreno su cui ci giocheremo larga parte delle nostre possibilità di dare risposte alle istanze sociali. In questo senso la nuova politica del Partito Democratico, grazie anche all’ingresso nel PSE voluto fortemente dalla Segreteria Renzi, è una novità importante ed è importante il ruolo svolto dal nostro Governo sui temi dello sviluppo, della flessibilità e soprattutto dei diritti umani. Per correggere l’elefante e risolvere i nostri problemi dobbiamo costruire un nuovo modello di Europa, consapevoli che senza Europa non potremo dare risposta a nulla di ciò che ci sta più a cuore.

 

Quando è arrivata la clava della crisi su di noi ha trovato un paese smarrito, debole, preda della speculazione finanziaria e ingabbiato dal debito pubblico. Un paese stanco e fermo nel pantano della recessione e della deflazione. Rimetterlo in movimento è stato un lavoro ciclopico. Se volgiamo lo sguardo a tre anni fa la seconda risposta non può che essere: Riforme.

 

L’Italia ha subito tre processi compiuti di riforme e tutti sono nati dopo eventi tragici: l’unità nazionale, la prima e la seconda guerra mondiale. Da allora ci siamo fermati: sono decenni che sentiamo parlare di riforme senza che vengano realizzate fino in fondo. I processi di riforma della giustizia, della pubblica amministrazione, delle istituzioni sono incagliati e le riforme portate a casa in questi anni hanno incrementato il sentimento di ingiustizia e smarrimento degli italiani. Spesso sono state percepite, a torto o a ragione, come spoliazione di diritti e garanzie e non come rafforzamento degli stessi. Si tratta di superare il riformismo anni ’90 tutto proiettato verso il liberismo e guardare alle riforme sociali che aiutano le persone e combattono le diseguaglianze senza dimenticare che per rendere l’Italia un paese più giusto, più moderno ed efficiente occorre battere i tanti conservatorismi nascosti in ogni piega della nostra società.

 

 

In questo senso il referendum costituzionale è stata un’opportunità mancata ed allo stesso tempo è diventato il catalizzatore di una serie di nostri limiti ed incapacità che hanno spinto il popolo italiano a diffidare da noi e dal nostro progetto di riforme. Occorre riflettere sugli errori commessi senza disperdere però il grande patrimonio di contenuti, partecipazione ed entusiasmo che abbiamo raccolto intorno alla battaglia referendaria. Era una battaglia giusta ed è stata persa ma la nostra vocazione non può non essere quella di riprovarci correggendo gli errori a cominciare dall’estensione del corpo delle riforme istituzionali. Questo paese, infatti, non può più permettersi di non cambiare. Ha bisogno di una giustizia civile che non deprima le aspettative di giustizia dei cittadini, di una pubblica amministrazione efficiente e decidente, di un welfare universale capace di proteggere tutti e tutte ponendo al centro la domanda di reddito delle persone e delle famiglie e di tante altre politiche.

 

 

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Quando nella Costituente venne proposta questa formulazione si pensò al lavoro per distinguere la nuova Repubblica da precedenti autorità statuali fondate su Dio, sui titoli nobiliari o sul censo. Nessuno ha mai pensato di slegare il lavoro dal Reddito anzi è lo stesso art. 36 della nostra Costituzione a difendere il diritto ad un reddito che possa garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore. Quello che è cambiato nel frattempo è il modo di produrre beni e servizi che di fatto ha espulso milioni di cittadini dal mondo del lavoro senza che sia diminuita la produttività e la competitività delle imprese. Se negli anni ’60 era certo che un cittadino potesse trovare lavoro dopo averlo temporaneamente perso oggi non è più così. Sono cambiati i mezzi di produzione ma non è cambiato il vecchio welfare che si muoveva secondo le esigenze del tempo. Oggi il tema non è solo garantire un periodo di cassa integrazione accompagnato da percorsi formativi ma è come evitare che parti enormi delle popolazioni finiscano sotto la soglia di povertà come chi il lavoro non lo ha mai incrociato o come chi lo ha perduto senza possibilità di recuperarlo in un periodo di tempo ragionevole. Questo non significa rinunciare alla funzione sociale del lavoro o rinnegare la sua capacità di dare senso e significato all’esistenza umana ma si tratta semplicemente di riconoscere che prima ancora del diritto al lavoro esiste il diritto all’esistenza che è un diritto universale e inviolabile. Dunque il reddito è l’antecedente logico necessario al lavoro mentre quest’ultimo è il risultato dello sviluppo e della crescita a cui la comunità tende e che tutti noi ricerchiamo ed incoraggiamo. Se questo diventa il tema ed il centro della nostra iniziativa politica cambia anche il dibattito sul mercato del lavoro. Ed infatti potremo affrontare i tanti problemi ancora aperti sapendo che esiste una protezione sociale di base, il reddito, che è comunque garantita e a cui tutti, soprattutto i lavoratori, possono accedere nei periodi di non lavoro. Tutto ciò non significa arretrare sul sistema delle garanzie o introdurre forme contrattuali più flessibili con l’alibi del reddito anzi la nostra vocazione deve rimanere, come è stato fatto nel Jobs act, il lavoro tipico e a tempo indeterminato.

Se la sfida per combattere le diseguaglianze passa da un’Europa forte la nostra nuova frontiera per fronteggiare le nuove emergenze, terrorismo e immigrazione, ma anche per intercettare opportunità ed occasioni inedite è il Mediterraneo.  Per la prima volta l’asse degli scambi si sta spostando dall’Atlantico all’oceano Indiano e Pacifico. È come se tornassimo a prima del 1492 e al ripristino delle antiche rotte commerciali e culturali con l’oriente. La situazione dei paesi arabi, inoltre, impone un ruolo all’Italia di mediazione diplomatica secondo la nostra migliore tradizione ma anche di scambio e confronto. In questo quadro abbiamo il dovere di sviluppare e potenziare le infrastrutture strategiche come il porto di Gioia Tauro e favorire la ricerca di nuovi percorsi d’integrazione e convivenza nel Mediterraneo valorizzando il ruolo delle istituzioni culturali, a cominciare delle università.

 

 

Senza rinunciare ai nostri valori costituzionali in tema di accoglienza, dobbiamo affrontare la sfida che il tempo presente ci sta ponendo di fronte consapevoli che dal modo in cui governiamo questo fenomeno storico dipende la nostra interpretazione di essere Sinistra. Siamo riusciti in pochi anni a far passare questo paese dalla retorica leghista degli affondamenti in mare all’orgoglio di essere il primo paese europeo impegnato nella salvezza di vite umane e nell’accoglienza di rifugiati politici, profughi da guerre e minori non accompagnati. Abbiamo proposto al paese un patto di cittadinanza per cui si integra chi rispetta la legge e si punisce chi non lo fa. Abbiamo perfezionato il modello Sprar a gestione pubblica contrastando la speculazione affaristica e spesso mafiosa sugli immigrati fatta di super centri di accoglienza che di fatto erano ghetti senza diritti e senza alcuna tutela dei diritti umani. La percezione di questo cambio di strategia ha un forte consenso sociale soprattutto nelle piccole comunità in cui, soprattutto in Calabria, si sta assistendo a fenomeni di integrazione straordinari ed in tal senso non sembrano opportune le nuove norme che rendono più difficile il riconoscimento dello status di rifugiato. La sicurezza non è, infatti, solo un problema di ordine pubblico ma si compone di politiche sociali, urbanistiche e d’istruzione che possono dare un senso di sinistra alla parola sicurezza. Anzi proprio perché solo la sinistra può declinare il tema della sicurezza in chiave sociale e culturale è nostro dovere appropriarcene per evitare che le destre lo utilizzino in maniera distorta e strumentale.

 

È facile dire che sui temi del mediterraneo, della sicurezza e della legalità la Calabria è in trincea, più difficile è capire quale funzione nazionale può svolgere la nostra regione. La Calabria si inserisce nelle grandi criticità del sistema paese. Quando siamo arrivati al governo, poco più di due anni fa, abbiamo trovato una situazione devastante e devastata sotto ogni profilo.

 

 Le partecipate erano diventate macchine clientelari con buchi di bilancio impressionanti e larghe sacche di illegittimità e irregolarità, il sistema degli aereoporti, dei porti e delle strade era sul punto di collassare, il programma POR 2007.2013 era ad un livello di spesa sotto il 40% e sulla nuova programmazione preparata dalla Giunta Scopelliti pendevano ben 50 pagine di osservazioni della Commissione Europea, sulla depurazione e sui rifiuti l’Unione Europea continuava con le procedure d’infrazione e sul fronte del sociale 27.000 ex lavoratori erano stati collocati in mobilità straordinaria in deroga senza che fossero state accantonate le somme necessarie e i centri socio-assistenziali erano stati accreditati con voucher senza impegno di spesa. Questi sono solo alcuni esempi ma l’elenco sarebbe infinitamente più lungo. Sui dati macro-economici la situazione non era migliore: PIL in recessione conclamata, disoccupazione in crescita netta, tasso di natività delle imprese fortemente negativo. Qui non si vuole fare l’elenco delle cose fatte, non serve, ma si vuole valorizzare la direzione politico-amministrativa intrapresa dal nostro governo regionale. Insieme alla gestione delle emergenze finalmente si sono attivati processi legislativi di programmazione di medio e lungo periodo che stanno trasformando il quadro normativo e dunque stanno fissando le regole per una nuova Calabria. Riforme attese da decenni come la legge sul trasporto pubblico locale, altro settore sanzionato dalla UE, quella urbanistica a sostegno della diminuzione del rischio idro-geologico e ispirata dalla filosofia del consumo di suolo zero, quella sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti che ci porterà ad un sistema a discariche zero, quella sulle politiche sociali che darà attuazione, con oltre un decennio di ritardo, alla normativa nazionale in tema di decentramento ai comuni e ai distretti socio-assistenziali delle funzioni ora in capo alla Regione  e poi altri atti di alta amministrazione come la rotazione dei dirigenti, la costruzione di un sistema aeroportuale regionale, la costruzione di opere strategiche come le metro di superficie per le grandi città e i nuovi ospedali o come  la costruzione di una nuova società interamente pubblica per la gestione delle acque e la predisposizione di un piano generale di contrasto alla povertà. È altrettanto evidente come, nonostante ci sia una tendenziale inversione di tutti gli indicatori economici verso il segno positivo (PIL, occupazione, etc…), la situazione necessita di interventi strutturali in grado di consentire una ripresa significativa e sensibile dell’intero sistema. Queste buone politiche sono state possibili anche grazie ad un’interlocuzione positiva con il Governo nazionale. Avevamo detto che il rapporto politico con la leadership nazionale del nostro partito sarebbe stata misurata soprattutto sui grandi temi che interessano la nostra terra e sulle esigenze della Calabria che vengono prima di tutto. Abbiamo registrato in tal senso una nuova sensibilità ed un’attenzione nuova che si sono concretizzate in misure concrete come la contrattualizzazione degli LSU-LPU, il riconoscimento politico del diritto alla retribuzione degli operai forestali, il Patto per la Calabria e per la Città Metropolitana di Reggio Calabria, gli interventi sulla A3 e sulla trasversale delle Serre e quelli in itinere sulla S.S. 106 e sulle altre principali arterie regionali.

 

Quando pensiamo sul come fare ci interroghiamo semplicemente su quale Partito vogliamo. Il PD è nato per unire storie, tradizioni, valori ma anche per affrontare le nuove sfide nel nuovo millennio. Avevamo l’idea di unire i riformisti e di creare una nuova cultura politica superando steccati, appartenenze e nostalgie. Non si trattava di fondere due partiti ma di crearne uno Nuovo. In questi 10 anni abbiamo investito le nostre vite politiche nel PD, abbiamo cercato di superare le tantissime domande che la nuova era ci poneva sul ruolo del partito, sulla sua funzione, sulla sua organizzazione. Conosciamo i nostri limiti ma forse ancora non conosciamo a fondo le vere potenzialità del Partito Democratico. I vecchi modelli affannano in Europa e nel mondo; siamo stati avanguardia di una nuova riorganizzazione del campo progressista e riformista, abbiamo creduto che bisogna creare un punto di riferimento per il centrosinistra italiano capace di semplificare il quadro politico  ma soprattutto di intercettare le istanze, i bisogni, le ansie di milioni di italiani che insieme a noi vivevano nuovi problemi, nuove contraddizioni ma anche nuove opportunità. Abbiamo ribadito la vocazione maggioritaria del partito, anche se in un sistema di alleanze, perché la sinistra ha il dovere di provare ad essere maggioranza nel paese e deve ambire a far diventare maggioranza gli ultimi, i più deboli, gli esclusi ed insieme a loro le istanze di giustizia sociale, di libertà, di solidarietà. Accanto a questo abbiamo fortemente voluto che sul tema dei diritti civili il nostro partito fosse avanguardia e non retroguardia ed oggi, grazie al lavoro testardo e prezioso dei nostri parlamentari e del nostro governo, migliaia di uomini e donne hanno più diritti e finalmente possono guardare al futuro con speranza gridando a tutti, a cominciare dallo Stato, il loro amore. Il Partito democratico è tutto questo e tanto altro che ancora non abbiamo neppure esplorato. Quello che è certo è che il PD è l’unico partito nazionale organizzato in maniera democratica secondo le regole fissate nella nostra Costituzione, capace di incidere sulla politica nazionale ed internazionale. Non vi sono al momento forze in grado di sostituire il PD; il nostro problema semmai è come riusciamo a rendere organizzazione pratica la nostra visione politica. La vecchia dicotomia tra partito-liquido e partito-pesante è ormai superata. La nuova frontiera è quella di far vivere insieme la componente esperenziale e sensoriale a quella fluida mediatico-politica. Non possiamo in pratica riproporre vecchi modelli ma dobbiamo crearne di nuovi costruendo una organizzazione partito che sia in sintonia con l’organizzazione moderna della società. La partecipazione, il confronto, il consenso debbono mantenere una forte presenza sui territori ma non possono rimanere distanti dalle nuove modalità di comunicazione, formazione e organizzazione. Dobbiamo insistere sulla formazione dei giovani democratici, sulla costruzione della nostra piattaforma di partecipazione digitale (come quella promossa da Renzi), sul radicamento territoriale stando attenti che le strutture periferiche non si chiudano a riccio escludendo invece di includere, sul rispetto dei luoghi di discussione e di decisione collettivi del partito, sul senso di comunità che ci deve far pensare ed agire per l’interesse generale, anteponendolo alle aspirazioni personali che senza giustificazione politica diventano mero esercizio autoreferenziale.  Dobbiamo insomma adeguarci alla modernità con intelligenza senza rinnegare i nostri pregi e le nostre virtù ma declinandole in chiave moderna ed innovativa.

 

Un Congresso serve a definire la direzione politica ma anche a far vivere nella società il dibattito e il confronto interno per arricchirlo, contaminarlo e alimentarlo attraverso contributi, riflessioni e documenti. Ogni iscritto ed ogni iscritta ha il dovere di partecipare, portare avanti il proprio punto di vista, mettersi in gioco senza preconcetti e pregiudizi. Ho sempre pensato che bisogna vivere il confronto interno pensando all’interesse del paese. Oggi forse dobbiamo viverlo pensando anche all’Europa e al mondo ed in questo senso dobbiamo valorizzare il nostro profilo rifomista e progressista. Corriamo il rischio di diventare spettatori di un confronto tra destra sovranista e destra liberale. In molto paesi la sinistra riformista non riesce ad essere competitiva mentre in Italia riusciamo ancora a tenere il fronte, ad affermare una visione progressista che non solo non rinuncia ai propri valori ma non si estranea dal presente e dal quotidiano  rilanciandoli nella sfida di governo. Per fare questo c’è bisogno del progetto, del partito e della leadership. Nella società della comunicazione, della velocita d’azione, della mancanza di strutture democratiche permanenti tutti e tre gli elementi sono necessari e si tengono uno con l’altro. In questo congresso per la prima volta c’è un ticket (Renzi-Martina), c’è una proposta collegiale, un nuovo modo di guidare il partito suggerito anche dagli errori commessi in passato. Questa è la cifra di una mediazione intelligente tra leadership e collettivo nel senso che mira a rafforzare il leader attraverso un gioco democratico interno collettivo ed ampio che sappia interpretare il senso e l’anima del Partito Democratico.

 

Proprio l’incontro tra le diverse sensibilità del Partito ci ha posto un altro tema: si può far vivere l’eredità democratica e di sinistra solo nella minoranza interna? Ritengo nettamente di No. Noi dobbiamo avere il coraggio di portare il nostro punto di vista non solo al governo del paese ma anche al governo del Partito per facilitare la contaminazione e l’elaborazione politica e per non far sentire corpi esterni al partito mondi associativi, sensibilità politiche e opzioni politico-culturali. Se l’asse di maggioranza del partito fosse privo di un ancoraggio nella tradizione di sinistra rischieremmo di facilitare la fuoruscita di forze, energie e personalità che, restando separati dalle decisioni del partito, finirebbero prima a disimpegnarsi e poi ad uscire. Inoltre non possiamo sottovalutare i profondi cambiamenti della società, le nuove istanze e i nuovi bisogni dei cittadini e non possiamo dargli risposte retoriche e prigioniere del passato. Avere una grande forza innovatrice e riformatrice è un valore aggiunto, un patrimonio da difendere e rivendicare con forza.

Per questo ho scelto di sostenere la mozione Renzi-Martina e queste poche righe sono il mio piccolo contributo alla nostra discussione congressuale».

 

Luigi Guglielmelli, segretario provinciale Pd Cosenza

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