La dirigenza del PD si faccia da parte. Basta il carrierismo spregiudicato

Il popolo italiano ha punito, soprattutto, un modo di essere della sinistra negli ultimi 25 anni. I protagonisti di questo modo di rappresentare la sinistra italiana dovrebbero avere la dignità, l’onestà e la generosità di farsi da parte e favorire una discussione libera e franca. Purtroppo costoro hanno un solo obiettivo: continuare a controllare il giocattolo partito per controllare il destino delle proprie carriere personali
di Pasquale Motta
8 marzo 2018
15:49

Alea iacta est”: il dado è tratto,  pare, disse Cesare oltrepassando il Rubicone. E quel Rubicone, le truppe di Grillo, i teorici del “Vaffa” al sistema che abbiamo conosciuto finora, lo hanno oltrepassato e di molto. Ora bisognerà vedere se riusciranno a piegare il potere di Roma. La partita è appena cominciata.

 


Domenica ho avuto modo di passare un paio d’ore ai seggi  e dopo aver fatto il mio dovere di cittadino della Repubblica, mi sono fermato a scambiare quattro chiacchiere con il personale del seggio elettorale e con i rappresentanti di lista. C’erano anche quelli del M5S, non erano della mia città ma di un paese vicino, dunque, con loro non ho avuto modo di parlare.  Mentre ero lì, tuttavia, li ho visti operare. Attenti, diligenti, spigolosi, pignoli. «Sembrano dei militari - mi sussurra un militante del PD presente al seggio in qualità di rappresentante del partito di Renzi- non si sono mai allontanati, controllano tutto, verificano le procedure di voto, si consultano - dei veri rompipalle - aggiunge il rappresentante di Forza Italia aggregato al seggio - è vero -interviene un rappresentante di LeU- rompipalle, un po’ arroganti, ma hanno una caratteristica che una volta avevamo noi militanti della sinistra e che abbiamo ormai perduto da un pezzo: la passione».

 

E già, la passione. Aggiungerei: la convinzione di poter cambiare  lo stato delle cose. Il sogno. Il sogno è speranza, il sogno è motivazione. Motivazione, sogno e speranza sono il fuoco che, per anni, hanno infiammato generazioni di militanti ed elettori della sinistra. Quante volte abbiamo sentito raccontare a chi ebbe la fortuna di vivere quelle stagioni politiche: “pensavamo di poter cambiare il mondo”. Quando hai quel fuoco dentro, un po’ di fanatismo, di arroganza, di utopia,  è quasi fisiologico possederli.

 

Gli eredi del PCI hanno passato tutti gli anni 90 a convertirsi al mercato. Lo hanno fatto inseguiti dal complesso d’inferiorità  verso le grandi socialdemocrazie europee e, quindi, spiegando che bisognava andare oltre le socialdemocrazie. La classe dirigente della sinistra, orfana del PCI, nel vano tentativo di non essere più considerata il brutto anatroccolo del paese, ha immaginato di scrollarsi di dosso quella storia, ricorrendo alle scorciatoie. Spesso, spregiudicatamente, ripudiando il proprio passato.  E così è passata dall’inseguire, di volta in volta, miti e sirene del liberalismo, nel tentativo di disegnare nuovi orizzonti da offrire ai propri elettori e militanti. Il blairismo anglosassone indicato da Prodi,  l’Ulivo mondiale di stampo clintoniano teorizzato da D’Alema,  il democratismo kenneydiano targato Veltroni.

 

Parallelamente, alla sua sinistra, la vecchia tentazione del minoritarismo endemico della storia della sinistra italiana e non solo, si attivava e materializzava  con il  comunismo da salotto che simpatizzava per il comandante Marcos targato Bertinotti, al comunismo movimentista dei centri sociali targato Ferrero. E mentre avveniva tutto ciò, nessuno ha più ritenuto di approfondire seriamente cosa stesse succedendo nella società italiana. Una società in graduale trasformazione che ha modificato ceti e classi sociali da sempre riferimento e linfa della sinistra italiana. Eppure, i segnali del progressivo distacco e, dunque, del declino del rapporto tra i ceti popolari e i rappresentanti di quello che fu il movimento operaio, c’erano tutti. Infatti, si erano già manifestati 20 anni prima, allorquando, milioni di elettori dei quartieri operai di Torino, Milano, Roma, dopo lustri di consenso al PCI, votarono in massa Silvio Berlusconi.

 

In quell’occasione ne derivarono chiacchiere, teorie, buoni propositi, tante belle analisi, ma atti concreti e finalizzati a costruire una politica che invertisse quella tendenza neanche l’ombra.

 

Qualcosa si era rotto tra la sinistra post comunista e il suo popolo. Ma nessuno si chiese: perché? Dopo la chimera dell’euro, si passò all’orizzonte dell’Europa dei popoli. Alla fine però, l’euro, soprattutto per l’approssimazione dei governi che si sono succeduti nel gestire la transizione, schiacciò la nostra economia e l’Europa che si è affermò fu quella dei tecnocrati. L’attuale Europa. Anche in questo caso chiacchiere da salotto televisivo, buoni auspici, ma nulla di concreto. Allora si cercò di dare una risposta con un nuovo strumento: il Pd.

 

L’alleanza del riformismo socialista con il riformismo solidarista del cattolicesimo democratico, lo definirono. Un progetto suggestivo, certo, anche se una cazzata teorica, due mondi paralleli che nel corso del secolo scorso, nella sostanza, non si erano mai incontrati, e infatti, invece dell’affermazione del progetto politicamente virtuoso tanto decantato,  invece dell’affermazione di un soggetto politico a guida collettiva e che avesse nel suo DNA la partecipazione,  ha avuto la meglio un soggetto politico pesantemente condizionato dall’interesse delle carriere dei singoli. Il destino di carrieristi, capi corrente e capi bastone venne anteposto al progetto collettivo. E, infine, la deriva leaderistica imposta da Matteo Renzi, il quale con la parola d’ordine della falsa rottamazione, e con l’arroganza che lo ha contraddistinto, soprattutto dopo il disastro elettorale del referendum, ha prodotto  il colpo quasi mortale con lo tsunami elettorale del 4 marzo ’18.  Certo, alla disfatta hanno contribuito una serie di fattori esterni e, tra questi, una crisi tra le più terribili dal dopo guerra ad oggi che ha profondamente modificato la struttura sociale del nostro paese ma, la responsabilità nella cosiddetta sinistra e nel suo gruppo dirigente, sta soprattutto nell’incapacità di aver saputo (o voluto) leggere il disagio sociale crescente nei meandri di questa crisi. E non poteva bastare declinare le cose positive fatte dai governi guidati dagli esponenti del Pd in questi anni, oppure demonizzare gli avversari accusandoli di populismo, fascismo, razzismo, qualunquismo e quant’altro, per invertire il clima di sfiducia e di contestazione verso il PD.

 

 

Tutto ciò ha prodotto un fatto incontestabile: l’organizzazione politica che si richiama ai valori della sinistra e del socialismo democratico,  non è stata più in grado di rappresentare i bisogni, il disagio, le sofferenze, di una società sempre più in difficoltà. La sinistra, dunque, ha aperto una voragine nella rappresentanza sociale dei ceti che aveva sempre rappresentato nel corso della sua storia. Uno spazio nel quale si sono radicate le forze accusate di essere populiste e fasciste. A questo punto viene da chiedersi:  davvero qualcuno ancora sano di mente a sinistra, può ancora immaginare che Salvini arrivasse quasi al 18% solo con qualche slogan contro l’immigrazione clandestina? Il leader leghista, con l’energia di un leone politico, battendo marciapiedi, strade, paesi, città, quartieri popolari, ha ascoltato il disagio, ha raccolto rabbia e il malumore, si è spinto finanche a Sud, dove disagio e povertà sono radicati da sempre,  lo ha organizzato, invadendo  e coprendo spazi sociali, una volta coperti dalle organizzazioni della sinistra, secondo i dettami dell’insegnamento gramsciano. E così hanno fatto i grillini, con la potenza di una comunicazione efficace. E promettendo di azzerare l’Italia dei privilegi, dell’arroganza burocratica, dei potentati economici, del trasformismo e promettendo di costruire uno Stato in grado di  prendersi cura anche dei disperati hanno travolto e conquistato le aree una volta appannaggio esclusivo della sinistra. Un sogno, un utopia, una sofisticata macchina comunicativa? Può darsi. Un disegno velleitario? Probabile. Tuttavia, un messaggio capace di coinvolgere milioni di persone. Questi due schemi, quello grillino e il neo leghismo nazionale di Salvini, sono i veri vincitori della battaglia. Il centrodestra sopravvive solo perché il leader Leghista, almeno per ora, ha scelto di condurre la battaglia dentro i confini di quello schieramento. Il PD, la sinistra riformista, prenda atto della realtà.

 

 

Il PD e la sinistra italiana, a questo punto, hanno di fronte un macroscopico problema. Un problema, sia chiaro, di non facile soluzione. La risposta potrebbe essere quella di cambiare radicalmente. Il popolo italiano ha punito un modo di essere della sinistra negli ultimi 25 anni. La risposta a questa esigenza di cambiamento radicale, dunque, non può essere l’aggiustamento di qualche pedina all’interno dei gruppi dirigenti o l’ennesima farsa di militanti poco convinti in fila a qualche gazebo per autorifilarsi l’ennesima bufala di una svolta che poi, nella sostanza, non arriva mai. I gruppi dirigenti della sinistra, quelli dentro e fuori dal PD, i protagonisti di questo modo di rappresentare la sinistra italiana degli ultimi 25 anni, dovrebbero avere la dignità, l’onestà e la generosità di farsi da parte e favorire una discussione libera e franca, aperta a tutti coloro che ancora credono che ci siano gli spazi per costruire qualcosa di profondamente diverso da quello che abbiamo conosciuto finora. Fino a quando capicorrente, capibastone, pupi e pupari, da Roma fino all’ultimo centro del paese, salvati o trombati dalle elezioni, continueranno a pretendere di condurre i giochi in maniera aperta o dietro le quinte, non ci sarà nessuna possibilità di salvezza.

 

Purtroppo, le soluzioni che si intravedono nella demenziale discussione che si è aperta nel PD in queste ore non lasciano presagire niente di buono. L'area democratica ha bisogno di mettere in campo una squadra di leoni che, a mani nude, ricostruiscano una comunità in macerie, mattone dopo mattone.  La sinistra ha bisogno di un leader che abbia la determinazione, l’energia e l’entusiasmo per cominciare a battere le strade di questo paese, i quartieri, gli ospedali, i luoghi di lavoro e del sapere. La sinistra ha bisogno di  leader che sappiano ascoltare gli anziani, gli insegnanti, i disoccupati, i giovani, gli intellettuali. Un ascolto all’insegna della sobrietà e dell’umiltà. La sinistra ha bisogno di leader che sappiano parlare alla gente, al loro cuore e alla loro testa, che sappiano interpretarne i bisogni. La sinistra ha bisogno di leader che rifuggano dai salotti, dai santuari dei poteri forti, dai cenacoli massonici. La discussione alla quale stiamo assistendo nel PD in queste ore, invece, non va verso questa direzione. Siamo per l’ennesima volta di fronte all’esercizio del tatticismo interno. Il cancro che lentamente sta uccidendo la sinistra italiana.   

 

Renzi vorrebbe tenere in piedi il suo disastroso cerchio magico. I suoi oppositori lo vorrebbero sostituire, ma senza mettersi in discussione. Se a questo delirio ma, soprattutto, a questo suicidio non si porrà fine, magari con la ribellione della base,  la sorte del PD sarà segnata per sempre. Assistere alla discussione di queste ore a Roma, come in Calabria, con i soliti capi bastone e capicorrente che si accusano reciprocamente per le responsabilità del disastro, è penoso, avvilente. Si avverte che costoro hanno un solo obiettivo: continuare a controllare il giocattolo partito, per perpetuare il destino delle proprie carriere personali. Un disegno che, oserei definire, quasi criminale dal punto di vista politico. Un atteggiamento, quello che da un po’ hanno assunto i dirigenti di ogni ordine e grado del Pd, che cerca di ridimensionare i problemi, facendo finta che non sia successo nulla di grave. Un modo di agire che ricorda il passo del libro  di Maud Hart Lovelace, “Betsy's Wedding”:  “Betsy tornò alla sua sedia, si tolse il cappotto e il cappello, aprì il suo libro e si è dimenticò di nuovo il mondo”.

 

-fine prima parte-

 

Pasquale Motta

Giornalista
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