Calabria, giù la maschera

La sensazione più immediata, leggendo le cronache degli ultimi tempi in Calabria, è che questa regione non veda mai luci in fondo al tunnel
di Angelo De Luca
23 aprile 2016
11:19
Foto di Salvatore Federico
Foto di Salvatore Federico

Politica, sanità e ‘ndrangheta sono espressioni quotidiane di un malessere generale, i primi punti di un’agenda horror che sottolinea in percentuale altissime usi e costumi della cittadinanza. Certo, c’è una parte silenziosa che poco c’entra con questo mondo parallelo malato e subisce passivamente i comportamenti dei propri corregionali. Ma d’altra parte sembra davvero impotente di fronte a tali nefandezze, che nemmeno lo sforzo collettivo di mille post su Facebook può cambiare. Cioè, ogni calabrese onesto e serio nulla può in confronto all’onta e al disonore che i propri paesani lasciano ogni giorno in eredità. Vuoi perché i media preferiscono amplificare i drammi e sottacere le glorie, vuoi perché della Calabria è bene che se ne parli sempre e male.

Le uniche magre, magrissime consolazioni sono le foto dei luoghi simbolo della bellezza regionale, che rendono orgogliosi contemporaneamente buoni, brutti e cattivi. Ma non basta. Anche perché il mare a Capo Vaticano, simbolo del turismo, pare non se la passi troppo bene. I depuratori non funzionano e scatta il divieto di balneazione. E’ aprile e forse si è in tempo per risolvere il problema. Ma la storia è sempre la stessa. “Costa pulita”, l’operazione anti-ndrangheta di qualche giorno fa, lo dice chiaramente: qui il turismo è cosa di pochi. E comunque ti muovi, dal gelato, alla frutta, dai lidi ai viaggi alle Isole Eolie, porti soldi sempre “la sotto”. “La sotto” è il nome dato dai sodalizi criminali della costa tirrenica vibonese per certificare un luogo fisico - e non utopico - dove si prendono ordini e si portano i malloppi dell’illegalità. “La sotto”, ovvero a casa Mancuso tra Nicotera e Limbadi, è la metafora del tutto e del niente, di una terra amara e avara.

La magistratura ha deciso di stringere il cerchio sulle attività illecite ormai atrofizzate in ogni angolo della penisola. Il caso “Rende” è - politicamente - la cartina al tornasole degli atavici problemi. Insomma, per anni si è dipinta l’area attorno all’Unical come il simbolo del nuovo ellenismo calabrese, perché Cosenza è la Milano del sud, ha strade larghe a tre corsie, qualche discoteca, parchi verdi e palazzi nuovi. Ed è lontana da Platì e San Luca, tanto geograficamente quanto culturalmente. Anni dopo, invece, si scopre che tale sistema si reggeva sulle medesime logiche di intrecci politico-mafioso-lobbista della peggio specie, con un uomo simbolo del riscatto - Sandro Principe - accusato di aver sapientemente oliato un meccanismo perverso per rimanere sempre a galla, in cambio dei soliti favori ai clan delle zona. Un tonfo al cuore, perché per decenni si era pensato davvero che il “modello Cosenza” fosse l’unico in grado di emanciparti. Ci sbagliavamo.

La notizia dello scandalo ai “Riuniti” di Reggio Calabria, poi, è forse la pietra tombale della vergogna. Per anni si è pensato alla bontà d’animo, all’accoglienza e all’umanità come i tratti distintivi dei calabresi. In questi giorni, invece, si è scoperto che il mito è crollato e che alcuni medici per due lire vendevano il corpo persino di cugini e parenti. E, come se non bastasse, tra medici si coprivano per non scoprire la formula della ricchezza diabolica.

Tutto questo è terribile, macabro. Reale. E purtroppo non è un film.

Giornalista
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