Stragi di mafia, l’ordine perentorio della madre al killer: devi tornare indietro

Tre giorni dopo aver svelato ai magistrati la verità sul duplice omicidio Fava-Garofalo, Calabrò incontra la madre (e sorella del presunto mandante). Lei gli intima: «Bocca chiusa e non si sbaglia mai». Lui dice di aver ritrattato. Poi attacchi alla Dda e messaggi chiari: «Abbiamo perso Francesco, hai capito?»
di Consolato Minniti
19 ottobre 2017
12:29

«Tutto dietro, tornare tutto indietro. Abbiamo sofferto tanto, pensaci bene». L’ordine è perentorio e non arriva da una persona qualunque. Perché potrai essere anche un killer, potrai aver ucciso diverse persone, ma tua madre resta sempre tua madre. E l’intimazione non è di quelle da prendere a cuor leggero: tornare indietro significa rinnegare le parole dette davanti ai magistrati, dove hai accusato i tuoi parenti diretti, proprio quelli che hanno lo stesso sangue ci colei che ti ha generato.

Sono da poco trascorse le 9.15 del mattino del 28 maggio 2014. Nella sala colloqui del carcere di Ferrara, c’è Giuseppe Calabrò, killer al soldo della ‘ndrangheta in quella strategia stragista messa in piedi assieme a Cosa nostra e che, in Calabria, ha portato all’uccisione dei carabinieri Fava e Garofalo ed al ferimento di altri militari. Dall’altra parte del vetro c’è Maria Concetta Filippone, madre di Calabrò, e il fratello del killer, Giovanni.


Le accuse ai mandanti

Solo tre giorni prima, il 25 maggio, Calabrò parla con i magistrati reggini. E racconta tutta quella verità taciuta per anni. Il suo interrogatorio è costellato di momenti di grande tensione, nervosismo e paura. Teme per la sua famiglia, il killer dei carabinieri. Sa che quella gente che dovrà accusare non scherza affatto. Anzi, sarebbe pronta a fargliela pagare. Probabilmente la presenza dei magistrati lo rassicura, gli fa compiere quel passo ulteriore che viceversa non avrebbe percorso. E allora si apre, parla, racconta, impreca. Nel mirino finiscono suo zio Rocco Filippone e il figlio Antonio, rispettivamente fratello e nipote della madre. Sono parole che pesano come macigni perché giungono da colui che ha premuto il grilletto nel gennaio di vent’anni prima, contro inermi militari che non hanno fatto altro che trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. E quei verbali, nonostante un’asserita ritrattazione, finiscono agli atti del processo “‘Ndrangheta stragista”, portando all’arresto di Rocco Filippone. Per Antonio, invece, il gip non riterrà sufficienti gli elementi d’accusa.

«Tornare tutto indietro»

È lo stesso Calabrò ad introdurre l’argomento con la madre, chiedendo se avesse parlato con l’avvocato Merlini, presente all’interrogatorio con i magistrati. Lei dice di sì e lo invita a ritrattare.

 

Calabrò: E che ti ha detto?

Filippone: Tutto dietro!

Calabrò: Ah?

Filippone: Di tornare tutto indietro

Calabrò: Eh… eh… io l’ho fatto già

Filippone: eh

Calabrò: è normale

Filippone: pensaci bene che hai fatto vent’anni di galera

Calabrò: è normale, è normale, è normale

 

Si preoccupano che quelle parole possano presto uscire. Ma tre giorni sono obiettivamente pochi per avere riscontri. Ed allora la madre gioca la carta della famiglia, per convincere il figlio a non parlare più.

 

Filippone: eh! hai un.. hai un.. due fratelli la a Reggio Calabria con un bambino incomprensibile.. non vorrei altre cose comunque.. ah?..

Calabrò: no..no..

Filippone: cose e bugie di tutto inc.. pensaci bene che hai sofferto tanto.. abbiamo sofferto.. non hai sofferto.. abbiamo sofferto assai.. me l'ha detto l'avvocato.. anzi.. una persona.. inc.. come ha sentito dire.. inc.. non voglio parlare.. ha detto.. vi faccio l'istanza signora.. lo faccio per voi.. però vo.. voi

 

E quando il fratello Giovanni tenta d’inserirsi nell’argomento, provando a giustificare il fratello, la madre è perentoria: «Stai zitto tu (dà un calcio, ndr) anzi… fammi parlare a me, fai silenzio… non era obbligo, ha detto no, non possono fare niente, ha detto, io avevo già presentato l’istanza, tutte cose…inc… sono passati un po’ di giorni, tutto a posto, un momento di crisi però»

L’attacco ai magistrati della Dda

Come spesso accade in casi simili, al centro delle accuse domestiche finiscono i magistrati reggini che hanno condotto l’interrogatorio. Sarebbero loro, nella contorta logica dei conversanti, ad aver quasi indotto Calabrò a dire ciò che poi ha riferito.

 

Filippone: Non possono obbligare le persone a dire quello che vogliono loro… non esiste

Calabrò: Poi si renderanno conto tanto… no io già… gli ho spiegato, gli ho scritto una raccomandata ho ritrattato tutto, non è vero niente perché loro penso, non lo è, non è giusto

Filippone: o pensano o non pensano possono pensare quello che vogliono

Calabrò: non è giusto, non esiste

Filippone: poi tu ancora gli puoi fare un’altra lettera, ma secondo voi, vent’anni ho fatto e non ho fatto il collaboratore, se avevo cose da dire non le dicevo… gli devi dire… all’inizio?

Calabrò: No a posto gli ho scritto già… gli ho scritto già i particolari

 

Per la donna ciò che fanno i magistrati sono «tutte chiacchiere». La preoccupazione è che il figlio possa essere chiamato a testimoniare nel corso del processo. Allora il killer la butta su quel suo star male che ne avrebbe causato il crollo.

«Vent’anni di sofferenze»

«Hai fatto vent’anni di sofferenze… non due anni», rimarca la Filippone. E il figlio allora sbotta: «Ma tu… ma tu… ma sai quanto sono stato male io? E ancora mi devo riprendere, ancora, di questa cosa qua». L’ordine torna, con la stessa perentorietà dei primi minuti: «Sì però… eh… zitto». Calabrò prova a giustificarsi: «Sono un essere umano, si può sbagliare nella vita (…) dopo vent’anni ti stanchi». Torna a parlare di magistrati che «rovinano famiglie» la Filippone, ricordando anche le disavventure di suo marito e dell’altro figlio, finiti nell’inchiesta “Araba fenice”. Poi ecco i consigli a Giuseppe, così come riportati dall’avvocato: «Fede!... fedeltà!... Fedeltà! Bocca chiusa e non si sbaglia mai». Calabrò allora torna di nuovo a spiegare di aver smentito: «Non hanno riscontri, niente, non sono veritiere quelle cose, si renderanno conto loro». La risposta della madre contiene tutta la rabbia per ciò che la sua famiglia sta vivendo: «Gli devi dire.. intanto.. io stesso… i pentiti fanno quello che cazzo vogliono e mettono frottole. Che vadano a sbrigarsela loro… i cornuti… le frottole… come ha fatto questo Villani bastardo, si è pentito dopo vent’anni, si è pentito questo… per raccontare frottole? Questo non lo dice… che io e Nicola…».

«Francesco, cosa ha fatto?»

La lunga conversazione scivola via senza grandi sussulti, fino a quando Maria Filippone si lascia andare ad uno sfogo che contiene messaggi chiari al figlio: «Abbiamo combinato qualche cosa di buono, capisci che voglio dire? Che posso guadagnare un qualcosa, no che perdo tutto… abbiamo perso i soldi abbiamo perso questo… abbiamo perso a Francesco, hai capito cosa ti sto dicendo… quello l’ho perso e non si può trovare più niente». Calabrò allora ricorda il fratello: «Quando veniva qua e mi trovava Francesco… Dio mio!». La madre riprende: «Quel ragazzo, per esempio, che cosa ha fatto? E guarda vedi il destino, com’è la vita figlio, un ragazzo serio, bello come il sole, ti devi rassegnare, ora dobbiamo lottare».

 

Francesco Calabrò è il figlio di Maria Filippone e il fratello di Giuseppe. Il suo corpo è stato ritrovato nelle acque del porto di Reggio Calabria, dentro la sua auto a distanza di diversi anni dalla scomparsa. Una morte che potrebbe essere collegata proprio alla storia dell’omicidio dei carabinieri. Francesco, infatti, era uno dei pochissimi a conoscere la verità.

 

Ed alla fine sembra che il rapporto di sangue, quello di famiglia, torni a prevalere nella mente stanca di Giuseppe Calabrò, preoccupato di non aver fatto danni. La madre gli mette in bocca le parole che servono: «Sono stato pressato… pressato di malinconia, il cervello è un chicco di grano». Lui prende atto e rilancia: «Vabbò, il cervello è un chicco di grano… però… la cosa importante che ci siete voi… ci siete tutti voi pure».

 

Ma dentro, Giuseppe Calabrò, non può dimenticare quanto vissuto tre giorni prima: la sua disperazione, le sue paure, quella tremenda difficoltà a raccontare fatti che solo lui poteva conoscere e che si incrociano perfettamente con il narrato di altri pentiti e con le indagini degli inquirenti. Leggendo e rileggendo gli atti non appare proprio un uomo in preda a pressing o costretto a dire qualcosa che non vuole, quando, in lacrime, si lascia andare a verità scomodissime. Giuseppe sa bene che solo 72 ore prima ha messo nei guai un suo parente diretto. Ma, ora che ha davanti sua madre, la sola preoccupazione è farla sentire più tranquilla: «Stai forte, stai sicura di me, stai tranquilla, stai serena», le ripete quasi ossessivamente. Lei conosce bene la sua creatura: «Ah se non fossi scocciata… più bene di mamma non ti vuole… tua mamma lo sai». E instilla in lui la certezza che «tornare indietro» sia l’unica strada percorribile, non sapendo che ormai è troppo tardi per mettere ancora a tacere la verità.

 

Consolato Minniti

Giornalista
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