«Il favore della ‘ndrangheta a Riina: uccidere Scopelliti» (AUDIO ORIGINALE)

‘Ndrangheta stragista, il pentito Villani chiede pietà ai familiari delle vittime e rivela: il capo di cosa nostra fu garante della pax mafiosa a Reggio. Le visite a casa Filippone e quel progetto diventato spietato: i carabinieri dovevano finire giù dal guardrail
di Consolato Minniti
15 dicembre 2017
20:51

«Chiedo pietà ai familiari delle vittime cui ho causato troppo male». Dopo il perdono invocato qualche anno addietro, ora per il pentito Consolato Villani è tempo di invocare pietà alle persone alle quali ha tolto un pezzo di vita. Lo fa nel giorno della sua deposizione al processo ‘Ndrangheta stragista. Lui è che autore materiale degli agguati ai carabinieri e del duplice omicidio Fava-Garofalo, questa mattina si ritrova davanti proprio i familiari dei due militari. Occhi negli occhi, per la prima volta. C’è solo un separé bianco a dividere carnefice e vittime. Ma la voce di Villani si sente benissimo. È decisa, ferma. Risoluta. Nella gabbia in fondo all’aula c’è Rocco Santo Filippone, in collegamento Giuseppe Graviano. Sono loro i due presunti mandanti di quelle stragi che, ancora oggi, Villani fa fatica a spiegare perché le sue conoscenze dirette sono di sicuro limitate rispetto al patrimonio posseduto dal suo collega di sventure, Giuseppe Calabrò.

Pietà ai familiari e l’inizio della carriera

Ma l’inizio è tutto affidato alle scuse. «Da quando sono diventato padre ho capito cosa ho fatto. Vedendo le mie figlie che mi chiamano papà, quando rientro a casa – ha riferito Villani – mi sono reso conto che non riesco a guardarle in faccia. Per questo non chiedo perdono perché sarebbe troppo poco e non mi sono perdonato nemmeno io stesso». Tuttavia, quel rimorso di coscienza è arrivato solo dopo tanti anni. Prima, invece, Villani sfrutta la decorrenza dei termini per uscire dal carcere, nel 1996, e costruire una carriera criminale di tutto rispetto. Fulminea rispetto a buona parte dei suoi coetanei. Perché quando decide di premere il grilletto, il giovane killer ha appena 17 anni.


Una famiglia di ‘ndrangheta

Non ha difficoltà ad ammetterlo, Villani: «Io sono nato in una famiglia di ‘ndrangheta». Non certo per parte di padre, ma per quella di sua madre, Caterina Lo Giudice. È lei ad essere imparentata con l’allora potente cosca operante a Santa Caterina. I Lo Giudice, però, risiedono nel quartiere di Ravagnese, feudo della cosca Ficara-Latella, ma soprattutto territorio nel quale nasce e cresce Giuseppe Calabrò. Ed è proprio grazie a quella conoscenza che Consolato Villani inizia sin da piccolo a maneggiare armi e compiere azioni delittuose. Lo fa prima con il fratello di Giuseppe, Francesco, colui che è stato ritrovato in fondo al mare al porto di Reggio Calabria. Poi con Giuseppe, con cui nascerà una forte amicizia ed una solida complicità, seppur di breve durata. Ma i suoi padrini di mafia saranno altri. C’è Nino Lo Giudice “il nano”, ma soprattutto Giovanni Chilà, uno di quelli che contano davvero in seno al clan Lo Giudice. Un killer, ma anche un capo che a Villani affida segreti importanti nel periodo in cui a comandare a Reggio Calabria ci sono i De Stefano, i Condello ed i Tegano. Come detto, la carriera di Villani è fulminea, tanto da riuscire a saltare il grado di sgarrista e salire subito a quello di santista.

Gli intrecci inconfessabili

«È il grado che permette alla ‘ndrangheta di avere relazioni con il mondo delle istituzioni, della politica, della massoneria», ammette serenamente Villani. Parla di uno “Stato nello Stato” il pentito per dare un’idea precisa di cosa sia stata la ‘ndrangheta negli anni. «È come se io avessi vissuto in un altro Stato». Ed allora la domanda è d’obbligo: perché un ragazzino classe ’77, poco più che ventenne, riesce ad ottenere già una dote così importante? Semplice: i meriti sono eccezionali rispetto alla norma. Non conta il numero degli omicidi, ma la qualità degli stessi. E Villani ha commesso una serie di atti di sangue che lo fanno balzare in alto. Colpisce i carabinieri in una strategia stragista di livello elevatissimo, ma anche inconfessabile. «Pensi dottore – spiega Villani rivolto al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che lo interroga – che se qualcuno toccava forze dell’ordine senza il beneplacito dei capi, veniva eliminato dalla sua stessa famiglia. Io pensavo che sarebbe toccato anche a me all’inizio, poi ho visto che non succedeva nulla». E la domanda è evidente: perché? Perché quelle azioni erano pianificate ai piani altissimi e avevano la giusta benedizione.

La cosca Lo Giudice e le massime del nano

Il racconto di Villani si staglia anche sulla cosca Lo Giudice e sul suo cugino un tempo più vicino: Nino Lo Giudice. Fu lui a spiegargli tutti i segreti del suo clan, compresi quei rapporti con pezzi di istituzioni che permettevano alla cosca di non essere quella tradizionale. «Avevano contatti con forze dell’ordine al soldo del clan e anche qualche magistrato», spiega Villani. «Mi diceva Nino Lo Giudice che per avere davvero il comando bisogna arrivare alla massoneria. Ci sono soggetti che apparentemente lavorano per lo Stato, ma che in realtà mirano a destabilizzare. Ricordo due persone, uno brutto ed una donna bionda dai capelli lisci. Lo Giudice mi disse che erano molto pericolosi».

Il processo da aggiustare

Il racconto di Villani prosegue su un processo, quello subito da lui e Calabrò che, secondo il pentito poteva essere sistemato grazie all’intervento dell’avvocato Lorenzo Gatto, suo difensore. «Nino Lo Giudice mi fece mettere l’avvocato Gatto. Loro avevano un rapporto di fiducia e Lo Giudice mi disse che l’avvocato era una referente dei servizi segreti deviati, un personaggio ambiguo, ma l’unico che poteva aggiustare il processo e farmi prendere la condanna più bassa possibile». Villani chiama in causa anche il giudice Neri, amico di Gatto, riferendo che fu lui a sostenere quel processo in qualità di sostituto procuratore generale e che Lo Giudice si disse disponibile a dare del denaro a Gatto per sistemare il processo. In realtà, però, l’accusa fu rappresentata dall’allora sostituto pg Ada Merrino e non da Neri. Villani poi ricorda che fu proprio l’avvocato Gatto a chiedere di sentire il pentito Spatuzza che, per primo, introdusse una possibile nuova chiave di lettura rispetto a quella – poi rivelatasi errata – del traffico di armi finita nella sentenza passata in giudicato.

La paura di dire la verità

Villani, anche nelle prime battute del pentimento, non parla mai degli agguati ai carabinieri, se non per confermare quel che già si sapeva. «Lo Giudice mi disse che non avrei mai dovuto parlare degli attentati», riferisce alla Corte d’Assise presieduta da Ornella Pastore. «Chi mi garantiva? Di chi mi dovevo fidare? Il sistema non funziona alla grande e avevo paura sia per me che per i miei familiari. Quando mi fu rivolta la domanda dal dottore Donadio, non sapevo se dire la verità oppure no. Alla fine, mentre se ne stava andando, gli dissi “un attimo” e cominciai a parlare. Il movente, l’organizzazione… non è così come è stata riferita». Villani si dice convinto che Lo Giudice sapesse tutto di quei fatti e giù con il racconto delle fasi salienti del primo attentato.

Riina a Reggio Calabria

Poi il riferimento all’ex capo di Cosa nostra: «Riina venne a Reggio Calabria per dare una spinta per ottenere la pace e far cessare la guerra di mafia. Incontrò i De Stefano e i Piromalli. Si voleva fermare la guerra e prendere accordi per portare la ‘ndrangheta a partecipare alle stragi. Il primo piacere fatto dalla ‘ndrangheta a cosa nostra fu l'omicidio del giudice Scopelliti. Da lì nacque un accordo fra cosa nostra e alcune parti della ndrangheta, ossia i De Stefano. In questo contesto si inserirono i servizi segreti deviati».

Le visite a casa Filippone

Incalzato dalle domande del procuratore Lombardo, Villani ricorda che, dopo il primo agguato di Saracinello, dove rimasero feriti due carabinieri, ci fu una prima visita a casa Filippone, nella villa di famiglia. Lui rimase più indietro rispetto a Calabrò, ma riuscì a capire che lo stesso parlava con lo zio di quei fatti e quest’ultimo – oggi imputato – fece un cenno di approvazione verso Villani, come a dire “ah allora è lui”. Non riuscì ad ascoltare molto, il pentito, perché zio e nipote parlavano senza che lui potesse sentire. Ma di certo c’è che da quel momento Calabrò «diventò molto più crudele e deciso». La domanda è chiara: «Calabrò avrebbe potuto deliberare da solo di uccidere i carabinieri?». Risposta netta: «Assolutamente no». Ma Villani non è neppure in grado di dire con certezza se fu proprio Filippone a dare quell’ordine. Dice, però, che il boss, capo del mandamento tirrenico, era a conoscenza di quei fatti. Non poteva essere diversamente, secondo il pentito. Una versione diversa da quella che lo stesso Villani diede il 4 giugno 2013, quando invece disse di essere assolutamente certo che Filippone avesse autorizzato quell’azione di fuoco. Poi però riprende fiato e racconto e spiega perché, a suo avviso, Filippone non potesse non sapere. Ci mette dentro le armi che presero proprio dal figlio dello zio, così come il fatto che Calabrò, durante la sua collaborazione, non fece mai cenno al suo parente diretto, oltre alle riunioni tenutesi sulla Piana, mandamento sotto il dominio di Filippone. Ma chi è costui? Per Villani è un uomo dei Piromalli, molto importante dal punto di vista mafioso ed in grado di parlare da pari a pari con Giovanni Tegano. Sta di fatto, dunque, che dopo quel primo incontro alla villa di Melicucco «il progetto criminale divenne spietato».

I carabinieri dovevano finire giù

Lo sa bene Villani perché Calabrò gli disse, in un primo tempo che il secondo attentato si doveva fare a Bagnara, territorio tirrenico sotto l’egida di Filippone. Bisognava attendere i carabinieri nella piazzola dove facevano ricognizione e lì spararli e poi portarli via fino al loro poligono abusivo. Ma le cose andarono diversamente, i carabinieri non si fermarono ed allora l’azione cambiò. Si sarebbe dovuto gettare giù i corpi dal guardrail. Un progetto tremendo, senza alcun rispetto neppure per le salme dei militari. La presenza di un camion, durante l’azione di fuoco, consigliò però, di lasciare perdere. Di sicuro c’è che per Villani «dovevamo fare come quelli della Uno bianca».

La seconda visita a Melicucco

Il padre di Villani inizia a sospettare del coinvolgimento del figlio. Dopo il primo attentato, infatti, nel corso del quale fu usata la Fiat Regata della famiglia Villani, l’uomo si recò dai carabinieri per fare denuncia di furto, non trovando più l’auto sotto casa. Era ignaro che l’avesse presa il figlio. I militari capirono che quella era l’auto bruciata trovata a poche ore dall’agguato e portarono via tanto il padre di Villani quanto la madre. Ci fu una perquisizione accurata, ma alla fine tutto si risolse nel nulla. I successivi agguati fecero pensare a Giuseppe Villani che il figlio minorenne potesse essere coinvolto con Calabrò. Per questo si rivolse dapprima a Giacomo Santo Calabrò, padre di Giuseppe, per chiedere che i due ragazzi potessero non frequentarsi e finirla con quelle azioni delittuose. Poi, al diniego dell’uomo che disse di non potere fare nulla, Villani, piuttosto che rivolgersi alla famiglia Lo Giudice, che comunque era quella della moglie, andò direttamente da Rocco Santo Filippone. Perché? Villani spiega che l’uomo era il riferimento ‘ndranghetistico di Giuseppe Calabrò, per il quale era come un padre. Più che uno zio. L’altro era Demetrio Lo Giudice, uomo di punta dei Libri nel territorio di via Reggio Campi.

Perché, dunque, rivolgersi a Filippone? Perché proprio lui? È qui che ruota buona parte della deposizione, così come fondamentale si rivela il punto riguardante la “benedizione” per compiere gli attentati. Calabrò e Villani erano due ragazzini. Non avrebbero potuto fare nulla da soli. Qualcuno gli diede l’incarico e lo diede a Calabrò. L’accusa punta chiaramente sulla figura di Rocco Santo Filippone, ma l’udienza si conclude perché il tempo a disposizione finisce. Si riprende lunedì con la seconda parte dell’esame.

 

Consolato Minniti

Giornalista
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