Il tradimento: così i Falcone hanno “venduto” l'ex pentito Greco al suo rivale

Quando interrompe il proprio rapporto di collaborazione con la giustizia, Giuseppe Greco cerca di ristabilire la sua egemonia mafiosa lasciatagli in eredità dal padre
29 luglio 2016
17:36

C'è il timbro del tradimento dietro la faida che si è consumata nei mesi scorsi a Calanna, piccolo comune collinare della provincia di Reggio Calabria. Perché quando l'ex pentito Giuseppe Greco interrompe il proprio rapporto di collaborazione con la giustizia, intende rientrare in quel territorio che il padre, Francesco, gli aveva lasciato in eredità, dal punto di vista dell'egemonia mafiosa. Tuttavia, come regola vuole, i vuoti creati vengono riempiti prima o poi da qualcun altro. E l'assenza di Giuseppe Greco è lunga e complessa. Dapprima arrestato nell'operazione "Meta", sceglie poi di saltare il fosso e iniziare il suo percorso di collaborazione con la giustizia. Una decisione piuttosto controversa e con scarsi risultati. Le sue propalazioni non hanno quasi mai consentito di arrivare a significative conferme o aprire squarci nuovi su situazioni rimaste nell'ombra. Insomma, Giuseppe Greco non ha certo saputo offrire fondamentali spunti agli inquirenti. Poi, all'improvviso, la contro decisione: stop alla collaborazione e voglia di uscire immediatamente dal programma di protezione.


La strategia (così la definiscono gli inquirenti) è quella di fingersi completamente fuori di testa, per minare la sua credibilità di fronte ai giudici. Da qui la successiva scelta di tornare nuovamente a Calanna e riprendersi quel che fino al 2010 era stato suo. C'è però il cugino Antonino Princi che, nel frattempo, ha acquisito prestigio e potere fra Calanna e Sambatello. Del resto, gli appalti per la costruzione della Gallico-Gambarie fanno gola a molti e non ci può essere il rischio per le cosche locali, di lasciarsi sfuggire l'opportunità di prendere parte alla spartizione della torta, né si può pensare che uno come Giuseppe Greco, "macchiatosi" della infamante accusa (nella subcultura mafiosa) di aver collaborato con la giustizia, possa impunemente tornare, facendo il bello ed il cattivo tempo. Ed allora? Non rimane che tentare una difficile conciliazione, un accordo che possa ricomporre la frattura creatasi all'interno della stessa cosca dei Greco. Ma evidentemente da entrambe le parti non si vuole cedere di un millimetro e così Giuseppe Greco, forte della sua tradizione criminale, decide che è tempo di far parlare le armi. Organizza l'agguato ai danni di Antonino Princi che, come testimoniato dal video catturato dalle telecamere, sventa il tentativo di omicidio, dimostrando una grandissima abilità di guida, nonché una conoscenza approfondita di quei luoghi. A Greco e Domenico Provenzano, non rimane che arrendersi: l'obiettivo è fallito. Princi è ancora vivo e vegeto e non ha riportato alcun danno.



Chi, invece, è a serio rischio è proprio Giuseppe Greco, il quale non esita a contattare i Falcone per provare a rientrare nel circuito criminale. Chiede la loro mediazione per chiudere la faccenda con Princi. Ed è qui che si consuma il tradimento che costa la vita a Domenico Polimeni, fidato uomo di Greco e porta al ferimento dello stesso ex pentito. I Falcone, infatti, avrebbero dovuto attivarsi per coinvolgere altre personalità criminali. Ed invece, ben lungi dal dare man forte a Greco, i due "vendono" a Princi l'informazione sul suo ritorno a Calanna, offrendo anche l'aiuto materiale e logistico per portare a compimento l'agguato.


Insomma, per Greco, togliere di mezzo Princi avrebbe significato un ritorno ai fasti del passato. E sono diverse le intercettazioni ambientali nel corso delle quali l'ex pentito accusa Princi di «non avere cervello», di non avere rispetto per le vecchie regole associative, spiegando anche che «la 'ndrangheta non è più quella di una volta».


Dall'altra parte, invece, l'eliminazione di Greco e del suo fidatissimo collaboratore Polimeni, rappresentava, scrivono i pm firmatari del provvedimento di fermo, «l'annientamento di un soggetto ambiguo, che aveva già mostrato in passato di voltare le spalle alla sua famiglia mafiosa di appartenenza, mettendone a repentaglio la stabilità e le relazioni di reciproco sostegno e vicendevole riconoscimento con le altre cosche attive nei comuni limitrofi di Sambatello, Catona, Gallico e Pettogallico». La posta in gioco, dunque, non era solo «l'affermazione personale di uno dei due contendenti, ma principalmente il futuro della cosca ed il suo rafforzamento sul territorio, attraverso la risoluzione dei conflitti interni, anche in termini non pacificatori». Una faida nata col sigillo del tradimento e terminata solo grazie al lavoro veloce ed efficace della Polizia di Stato e della Dda di Reggio Calabria.



Consolato Minniti

 

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