Condanna per associazione mafiosa? La sola affiliazione non basta

Processo “Il Crimine”, la Cassazione stabilisce che il rito d’ingresso nella ‘ndrangheta da solo non è sufficiente per la condanna penale. Occorre che vi sia la prova dell’effettiva attivazione del soggetto e del suo apporto all'organizzazione
di Consolato Minniti
8 gennaio 2017
08:22

Pensate che essere ufficialmente affiliati alla ‘ndrangheta, con tanto di rito e santino bruciato, sia sufficiente per ritenersi “appartenenti” e quindi penalmente punibili? La Cassazione non la pensa proprio così.

 


È una pronuncia destinata sicuramente a far discutere quella della Suprema Corte nella sentenza “Il Crimine”. I giudici, infatti, sanciscono un principio molto interessante dal punto di vista giurisprudenziale: la responsabilità penale per 416 bis si può configurare solo con la prova dell’effettivo apporto dato da un soggetto all’organizzazione criminale.

 

Chiariamolo: non viene certo messo in discussione l’impianto accusatorio dell’inchiesta che, anzi, trova totale conferma in via definitiva stabilendo quello che tutti ormai sappiamo da un po’: la ‘ndrangheta è un’organizzazione unitaria e verticistica, con un organismo chiamato “Provincia” o “Crimine”, con il compito di vigilare sul rispetto delle regole mafiose. Niente “capo dei capi”, dunque, per Domenico Oppedisano che, pure, era assurto agli onori della cronaca come il Provenzano di Calabria. Il vecchio venditore di piantine è e rimane ciò che disse Nicola Gratteri: un custode delle regole. Insomma, un organo di garanzia perché nessuno trasgredisse quelle “norme” comportamentali che hanno permesso alle ‘ndrine di proliferare così bene soprattutto fuori dalla Calabria.

 

Ma l’aspetto, a nostro avviso, più interessante di tutta la pronuncia è proprio quello concernente la possibilità di condanna per associazione mafiosa. «Se da un lato la qualità di “uomo d’onore”, sul piano storico ed esperienziale – scrivono i giudici – tende ad implicare una avvenuta attivazione in favore dell’organizzazione (così come la progressione nelle doti)» e si qualifica quindi con appartenenza piena, «non altrettanto può dirsi per la semplice affiliazione rituale, posto che la stessa dimostra esclusivamente un profilo di volontà di far parte, per cui non è detto che segua l’effettiva assunzione del ruolo. In tale ultimo caso – prosegue la Cassazione – la pretesa massima di esperienza sarebbe fallace perché tenderebbe a scontrarsi con una sostenibile ipotesi alternativa, rappresentata dal fatto che, pur dopo l’accordo d’ingresso, il soggetto sia rimasto in realtà inattivo (o manchi la prova dell’avvenuta attivazione)».

 

Secondo i giudici, dunque, bisogna tenere distinte le due ipotesi. I ricorsi dei legali sono da ritenersi fondati – e quindi gli imputati da assolvere – se la sola prova portata è quella del «mero dato dell’avvenuta affiliazione rituale, non seguito da ulteriori indicatori fattuali idonei a determinare la considerazione (al di là di ogni ragionevole dubbio) dell’avvenuta attivazione del soggetto in favore dell’organizzazione». Viceversa, non sono stati ritenuti meritevoli di accoglimento quei ricorsi nei quali tale prova vi era. Un esempio per tutti, i casi in cui è provato il conferimento di una dote, essendo un tale passaggio sintomatico dell’attivazione in ambito associativo «con pieno merito della persona destinataria».

 

Consolato Minniti

Giornalista
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