Caso Scarfò, è definitiva la condanna per don Antonio Scordo

Un anno di reclusione (pena sospesa e non menzione nel casellario) per falsa testimonianza nel processo agli aguzzini della ragazza violentata a San Martino di Taurianova. Ma gli avvocati difensori promettono battaglia: «Ricorreremo alla Cedu. Errata interpretazione della Cassazione»
18 dicembre 2016
08:15

È diventata definitiva la condanna a un anno di reclusione per don Antonio Scordo, ex parroco di San Martino di Taurianova, accusato di falsa testimonianza nel processo contro gli stupratori di Anna Maria Scarfò, una ragazza che, all’età di tredici anni, subì ripetutamente violenze carnali da un gruppo di giovani – anch’essi all’epoca minorenni e originari del paese dell’entroterra reggino.

La decisione della Corte di Cassazione è arrivata nella giornata di ieri.


 

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Il prete – nonostante tutto promosso a parroco del Duomo dal vescovo di Oppido-Palmi, monsignor Francesco Milito – fu uno dei primi a raccogliere lo sfogo di Anna Maria, che gli raccontò delle violenze. Lui, però, le consigliò di non sporgere denuncia per non creare scandalo, dandole… l’assoluzione per i peccati commessi. Solo dopo la ragazza riuscì a trovare il coraggio di ribellarsi e quindi denunciare.

 

Ma gli avvocati difensori di don Antonio, Antonino Napoli e Guido Contestabile, promettono ancora battaglia, spiegando che la vicenda giudiziaria non può dirsi completamente conclusa poiché «nonostante occorre attendere le motivazioni della sentenza della Suprema Corte, avverso la pronuncia della Cassazione la difesa ricorrerà certamente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo poiché riteniamo che nel processo contro don Antonio siano stati violati i diritti stabiliti dalla Convenzione».

 

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«Siamo fermamente convinti – ha spiegato l’avvocato Napoli – dell’innocenza di don Antonio poiché vi è una chiara omissione da parte dei giudici nella valutazione della scansione cronologica degli eventi: don Antonio è stato chiamato a deporre in un processo che ha visto imputati alcuni giovani per violenze sessuali di gruppo che sarebbero state commesse negli anni 2001 e 2002 mentre la confidenza, che il prete avrebbe ricevuto da parte della ragazza abusata e per la quale ha subito il processo, sarebbe avvenuta nel periodo di Pasqua del 1999. E’ evidente che nel 1999 la giovane vittima non avrebbe potuto conosce né riferire a don Antonio i nomi delle persone che l’avrebbero poi violentata nel 2001-2002. Nel presente giudizio, inoltre, riteniamo -conclude Napoli-  che siano state violate le norme che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica in quanto il segreto ministeriale, previsto dall’art. 4, n. 4, dell’accordo di Palazzo Madama del 1984, è posto a tutela, non solo del diritto alla riservatezza del confidente di cui si percepisce il segreto, ma anche – e soprattutto – della dignità del ministero sacerdotale e dell’indipendenza della Chiesa Cattolica quale ordinamento distinto e autonomo rispetto a quello dello Stato. L’incapacità della Corte di Cassazione di cogliere il senso e la portata della disposizione pattizia è stata causa di un’erronea applicazione della normativa sul segreto ministeriale a cui, speriamo, la Corte EDU saprà fornire una definitiva interpretazione sovranazionale vincolante per la magistratura italiana».

 

cons.min.

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